Quei Lumi spenti su un pianeta affamato
Intervista
«La fame nel mondo è frutto di scelte economiche che favoriscono le imprese
multinazionali». Parla Jean Ziegler, in Italia per presentare il suo ultimo
libro «L'impero della vergogna»
Con l'11 settembre è iniziata una feudalizzazione del
mondo che cancella i principi dell'89
«La fame è lo scandalo del
nostro secolo». Fedele alla sua reputazione di uomo poco diplomatico, Jean
Ziegler non usa giri di parole per denunciare quello che definisce «un genocidio
silenzioso», ossia la morte per fame ogni anno di centinaia di migliaia di
persone. Relatore speciale delle Nazioni unite per il diritto all'alimentazione,
l'ex senatore svizzero e professore di sociologia gira il mondo in lungo e in
largo per verificare sul terreno cause e natura delle crisi alimentari, delle
carestie e della malnutrizione che colpisce una fetta consistente della
popolazione del pianeta. Le sue dichiarazioni spesso fuori dai denti gli hanno
fatto guadagnare numerosi e poderosi nemici. Quando, nel 2004, ha denunciato
pubblicamente Israele per le violazioni del diritto all'alimentazione e ai
diritti umani nei territori palestinesi occupati, ha subito un assalto furioso.
Allo stesso tempo, la sua battaglia contro gli organismi geneticamente
modificati (Ogm) ha provocato non pochi mal di testa all'amministrazione
statunitense, che ha chiesto a più riprese la sua testa. Ma invano: Ziegler è
sempre al suo posto. E, oltre al suo ruolo istituzionale, svolge la funzione di
straordinario divulgatore, con interventi pubblici e libri. L'ultimo, appena
uscito per i tipi del Saggiatore, si intitola L'impero della vergogna
e declina con dovizia di particolari le strutture del dominio planetario
esercitato da un pugno di multinazionali.
Nel suo libro, lei sostiene che la morte per fame non è
una casualità, ma il risultato di deliberate scelte politiche. Può spiegare
meglio?
Nel nostro mondo muoiono ogni giorno di fame o delle sue
dirette conseguenze circa cinquemila persone. Solo l'anno scorso, secondo il
World Food Report della Fao, 856 milioni di persone sono state affette da
gravi forme di sotto-alimentazione. Ciò accade in un pianeta in cui, sempre
secondo il World Food Report, l'agricoltura mondiale potrebbe dare
nutrimento senza problemi a 12 miliardi di persone, cioè il doppio dell'attuale
popolazione complessiva. Eppure, il massacro continua. Da ciò si può dedurre una
sola cosa: un bambino che muore di fame viene di fatto assassinato. E alla base
di questo genocidio silenzioso, ci sono precise scelte politiche. La fame è
un'arma di distruzione di massa, usata con piena cognizione di causa dai nuovi
padroni del mondo.
Chi sarebbero questi nuovi padroni del mondo?
Il potere effettivo mondiale è ormai nelle mani di
poche società multinazionali private; secondo la Banca mondiale, l'anno scorso
le 500 maggiori multinazionali mondiali hanno controllato in totale più del 52
per cento del Prodotto mondiale lordo. Si tratta di un fenomeno che definisco «rifeudalizzazione
del mondo». Il 4 agosto 1789, in una storica seduta notturna, la neonata
Assemblea nazionale francese ha solennemente abolito il sistema feudale - ossia
la monopolizzazione del potere ideologico, economico, politico e militare da
parte di ristrette oligarchie. Oggi quella grande conquista dell'umanità è a
rischio: le società multinazionali, che non hanno altro orizzonte che il
profitto, dettano le loro leggi agli stati nazionali.
Lei sembra attribuire tutti i mali del mondo alle
multinazionali e ad alcuni stati del Nord. Non le sembra un'interpretazione
semplicistica?
Tutt'altro. L'attuale ordine del mondo è totalmente
assurdo e dominato da quelli che io definisco i «cosmocrati», gente mossa sola
dalla massimalizzazione del profitto, dall'avidità e dalla sete di un potere
illimitato, le cui azioni si dispiegano a livello planetario. Perché le
conseguenze delle loro politiche non si misurano solo nel Sud del mondo, ma
anche nel Nord: la prima cosa che fanno ogni mattina i governanti occidentali è
controllare l'andamento della borsa di New York, di Tokyo, di Londra per capire
quale minimo margine di manovra resta loro per applicare sul loro territorio una
certa politica fiscale o una qualche strategia di investimento. Se non
rispettano le direttive del capitale mondiale, le conseguenze saranno durissime:
fughe di capitali, delocalizzazioni delle industrie e via dicendo. Il filosofo
tedesco Jürgen Habermas ha scritto una cosa che riassume molto bene questa
situazione: secondo lui, gli stati ormai non possono fare altro che una
Welt-inner Politik, ossia una politica interna mondiale. Questa è la
rifeudalizzazione del mondo, la cui offensiva è cominciata l'11 settembre 2001.
Ritiene davvero che gli attacchi contro New York e
Washington abbiano dato inizio a una svolta così epocale? Le politiche di
aggiustamento strutturale, che hanno piegato diversi paesi del Sud del mondo,
sono cominciate molto prima del crollo delle Torri gemelle...
L'11 settembre ha segnato una svolta storica, perché è in
quella data che il mondo dei dominatori è stato colpito al cuore da gente
proveniente dal mondo dei dominati. Questo ha fornito all'amministrazione
americana e alle multinazionali ad essa legate il pretesto morale e ideologico
per portare avanti, in nome della guerra al terrorismo, una vera e propria
conquista del pianeta. A questo proposito, faccio un esempio concreto: per
l'emergenza siccità che sta devastando buona parte del Corno d'Africa (Somalia
meridionale e Kenya nord-orientale), le Nazioni unite hanno chiesto ai paesi
donatori 98 milioni di dollari. Ne sono arrivati 32 milioni, ossia meno di un
terzo della cifra richiesta. Nel mio ruolo di relatore speciale dell'Onu per
l'alimentazione, ho domandato ai vari ambasciatori le ragioni di questa
avarizia. Ebbene, tutti mi hanno dato la stessa risposta: dal 2001 in poi, la
priorità assoluta va data agli investimenti sulla sicurezza. Per la prima volta
nella storia del mondo, la somma spesa solo per l'acquisto delle armi ha
superato i mille miliardi di dollari.
Secondo lei, sarebbero solo i mancati aiuti a provocare
l'estensione della fame nel mondo e in particolare nei paesi africani?
No, la gente muore di fame sempre nello stesso modo, ma per
ragioni spesso diverse. Tanto univoca è, a livello fisiologico, la distruzione
attraverso la fame, tanto complesse sono le cause che portano a questa
distruzione. Senza creare una vera e propria gerarchia, si possono tirare in
ballo varie cause per spiegare la situazione attuale. La prima è senz'altro la
politica di dumping sui prodotti agricoli operata dall'Unione europea con
le sovvenzioni alla produzione e all'esportazione. Solo l'anno scorso, Bruxelles
ha versato ai contadini europei 349 miliardi di dollari, ossia quasi un miliardo
di dollari al giorno. Risultato: sui mercati africani - a Dakar, a Bamako, a
Kampala, ovunque - è possibile comprare prodotti spagnoli, italiani, portoghesi
a un prezzo due volte inferiore rispetto a quello dei prodotti locali. E il
contadino senegalese, maliano o ugandese, che lavora 15 ore al giorno sotto un
sole cocente, non avrà di che nutrire la propria famiglia. Se si considera che,
su 53 paesi che conta l'Africa, 37 hanno un'economia puramente agricola, si
capisce perché la politica di dumping esercitata dall'Ue è devastante. E crea
fame: perché in 20 anni, dal 1982 al 2002 il numero di sotto-alimentati è
cresciuto da 91 milioni a più di 200 milioni nella sola Africa.
Ma i paesi africani non potrebbero imporre dazi doganali
alle importazioni straniere e implementare le aree regionali di libero
commercio, di cui il continente già dispone? La Cedeao, la grande comunità
economica dell'Africa occidentale, è un mercato immenso di 300 milioni di
persone...
Qui entra in gioco, la seconda causa: l'indebitamento.
Centoventidue paesi del cosiddetto Terzo mondo hanno un debito accumulato di
2100 miliardi di dollari. Sono stretti nella morsa del debito e non hanno alcuna
capacità di negoziare. È il debito che li costringe ad accettare le condizioni
imposte dal Fondo monetario internazionale (Fmi) e dall'Organizzazione mondiale
del commercio (Wto). È proprio la Wto a vietare i dazi doganali sulle merci
provenienti dall'esterno. Il meccanismo è perverso: questi paesi non hanno
alcuna chance di fare investimenti in programmi sociali, in irrigazioni,
infrastrutture, perché tutto quello che guadagnano sul mercato monetario
internazionale è usato per il servizio del debito. Senza contare che, per avere
moneta forte, tutti i paesi indebitati aumentano le loro piantagioni di
esportazione, come il caffé o il cotone, a scapito delle colture che
permetterebbero di nutrire la popolazione, come il grano o il miglio. Il debito
modifica la destinazione delle colture. Il debito crea fame.
Quali soluzioni propone per porre fine a questo stato di
cose?
Nessuna causa ha ragioni non controllabili. L'idea
degli economisti classici, da Smith a Ricardo fino allo stesso Marx, secondo cui
i beni disponibili sul pianeta sarebbero oggettivamente insufficienti per
coprire le necessità esistenziali di tutti, oggi non è più valida. Grazie a
straordinarie rivoluzioni tecnologiche ed elettroniche, siamo usciti per la
prima volta dalla tirannia della necessità. Come già dicevo prima, ci sarebbe da
mangiare per tutti. Il problema della fame ha quindi un'origine umana; è il
risultato di decisioni politiche, di precise strategie economiche. Che, come
tali, possono essere cambiate. Se prendiamo la catena di causalità, le soluzioni
da apportare appaiono abbastanza chiare: abolire le sovvenzioni alla produzioni
e all'esportazione che l'Unione europea e gli Stati uniti forniscono ai loro
contadini; abolire la liberalizzazione forzata imposta dalla Wto; sottoporre a
un controllo sociale le strategie delle multinazionali (costringendole a pagare
salari minimi in tutto il mondo). E poi, cancellare il debito che, come un nodo
scorsoio, tiene in scacco paesi interi. Quest'ultimo è tanto più devastante in
quanto in molti casi si tratta di un «debito odioso», contratto da dittature o
da classi dirigenti corrotte, di cui il popolo non ha minimamente beneficiato.
Faccio un solo esempio: quando Luiz Inacio «Lula» Da Silva è entrato nel palazzo
presidenziale di Brasilia, ha trovato un debito astronomico, il secondo più alto
del mondo: 245 miliardi di dollari, eredità di 18 anni di dittature militari. È
precisamente questo fardello che non gli permette di finanziare a dovere il suo
programma «Fame zero», ossia la lotta contro la sotto-alimentazione di 44
milioni di brasiliani.
La sua ricetta implica una revisione delle relazioni
internazionali. Pensa davvero che sia possibile incentrarle semplicemente su
imperativi di carattere morale piuttosto che su interessi economici e
geo-politici?
Non c'è altra scelta. Se non restauriamo con la massima
urgenza i valori dell'Illuminismo, il diritto internazionale, i principi della
civiltà europea saranno cancellati, inghiottiti in una giungla senza regole.
Stefano Liberti Il manifesto 14/07/2006