Quei cortei notturni con troppi tricolori

 

Anche se adesso Rifondazione comunista è al governo - e forse sarebbe bene non mostrarsi troppo sovversivi, o antipatriottici, o disfattisti - a me i cortei che sventolano il tricolore fanno sempre un certo effetto. Voglio dire: non un buon effetto. Non è che li condanno, però mi ricordo quando ero ragazzo e c’erano solo due tipi di cortei: quelli con le bandiere rosse e quelli con le bandiere tricolori. I primi erano cortei comunisti, i secondi erano fascisti. E’ vero che il Pci faceva tutto quello che poteva per spiegarci che il tricolore era un simbolo anche nostro - il riscatto nazionale, e la Resistenza, e quel disegno di Guttuso con la bandiera rossa sopra e il tricolore che spuntava da sotto (ora se lo sono fregato quelli del Pdci ed è diventato il loro logo elettorale...) - ma non riuscì mai a convincerci del tutto. Anzi, non ci convinse per niente.

Così, l’altra sera, mi ha dato un po’ fastidio quel brulicare di bandiere tricolori in tutte le città. Non so se è solo una idiosincrasia della mia generazione: può darsi. Però credo che un problema ci sia, e non riguardi solo le bandiere, ma alcuni aspetti, che a me sembrano preoccupanti, della grande emozione collettiva provocata dalla vittoria calcistica dell’Italia.

Provo a esprimere questo dubbio con una domanda: possibile che l’unico “valore” unificante per tanta gente - e tantissimi giovani - sia il tifo per la nazionale?

Conosco molte risposte a questa domanda. Prima risposta: il tifo di massa è un fenomeno fortemente popolare; seconda: insieme alle bandiere biancorossoverdi c’erano anche tante magliette del Che; terza: c’era un elemento di festa e di gioia e non solo di aggressività nazionalista nei cortei di martedì notte; quarta: insieme agli italiani festeggiavano tanti immigrati che avevano tifato insieme a noi; eccetera eccetera.

Tutto vero (e in parte espresso molto bene, in questa stessa pagina, dal nostro Darwin Pastorin). Però a me restano tre fortissimi dubbi. Il primo dubbio, la prima impressione, è che comunque in quei cortei e in quei giganteschi raduni ci fosse una grande componente nazionalista e - in parte - persino xenofoba. La xenofobia solitamente è accompagnata da un elemento di odio per il debole - lo straniero come debole - e in questo caso, invece, la xenofobia “antitedesca” rappresentava l’odio per il forte: non credo però che possa esistere una xenofobia cattiva e una buona.

La seconda impressione è che nella ricerca della festa collettiva - dietro ai colori italiani e alla squadra di Lippi - ci fosse l’incapacità a trovare altre dimensioni di vivere collettivo e altre idee di collettività.

Terzo dubbio: il “valore” rappresentato dalla nazionale di calcio, come qualunque altro valore nazionalistico, o di pura appartenenza, non è un valore senza principi? E perciò non è un antivalore? E non è quindi molto pericoloso?

Cosa voglio dire con questo ragionamento un po’ disperato e isolato? Semplicemente che avverto un enorme vuoto culturale, risultato della crisi drammatica delle ideologie e delle idee, dei sistemi di pensiero. Questa crisi solo a tratti viene terremotata dall’irrompere dei movimenti - i quali, per loro natura, hanno andamento e durata ciclici e non stabili - e poi torna, e porta con se, inevitabilmente, la piatta retorica nazionalista come via d’uscita. E’ una retorica che c’entra pochissimo col tifo vero, di quelli che amano il calcio e non le nazioni.

 

Piero Sansonetti       Liberazione  6 luglio 2006