Quattro bambini di «scarto»
Le prime notizie d'agenzia non ne riportavano neppure i
nomi. Come senza nome sono le decine di morti del Canale di Sicilia o del Canale
d'Otranto: corpi di possibili intrusi. La statistica anonima degli ultimi, delle
«vite di scarto». Poi qualche dato anagrafico è filtrato: quattro bambini Rom,
tra i quattro e i dieci anni. Eva, Danchiu, Lenuca e Dengi. Sono bruciati vivi
nella baracca in cui vivevano sotto un cavalcavia: uno dei tanti luoghi
degradati che caratterizzano la nostra «urbanistica del disprezzo», terre di
nessuno vicino a una discarica, a uno scolo fognario, a uno scarico industriale,
là dove la nostra ostilità li spinge e li ammucchia, lontano dalle nostre vite
decorose, fuori dalla vista della «gente per bene». Sono le vittime, atrocemente
innocenti, di quella che è apparsa fin da subito come una tragedia sconvolgente.
E tuttavia il linguaggio giornalistico stenta a trovare i toni della
costernazione genericamente umana che la circostanza dovrebbe suggerire. Resta
irrimediabilmente sospettoso. Insinua allusioni a una presunta «fuga dei
genitori». Enfatizza le parole del magistrato secondo cui «si configura in ogni
caso una serie di reati di una certa gravità».
Si parla di «colpevole disattenzione». Di un «uso improprio dei materiali» (le
candele usate per illuminare la baracca, priva di energia elettrica, come di
acqua corrente, di servizi igienici, di tutto...). Perché quando si tratta di
zingari, è difficile sottrarsi al pregiudizio, o anche solo all'abitudine di
farne oggetto di cronaca esclusivamente nera, dove la carezza a un bambino
diventa un tentativo di rapimento, e l'assenza di ogni più elementare genere di
comfort il segno di una colpa.
Eva, Danchiu, Lenuca e Dengi sono morti perché non hanno trovato in questo
grande paese di 301.000 km² un solo posto civile in cui posarsi e abitare.
Perché per quelli come loro, che possiedono solo la loro vita nuda, e se la
portano dietro come una casa, non c'è spazio nel mondo recintato, segregato,
privatizzato, appropriato che abbiamo costruito. Non un prato, la sponda di un
fiume, la radura di un bosco, il piazzale di un paese, dopo questa lunga,
sistematica «recinzione delle terre» che chiamiamo civiltà. Solo gli interstizi
degradati e avvelenati delle periferie, dove anche farsi un po'di luce la sera
diventa mortalmente pericoloso. O i «campi» a numero chiuso dove stoccare i
corpi non omologati alla logica del buon cittadino consumatore (quelli che
piacciono tanto ai nostri sindaci, da Roma a Torino a Milano).
«Fuori gli zingari», titolava qualche giorno fa il quotidiano della Lega -
quelli che hanno quotato l'odio per l'altro alla borsa della politica. Ma
«fuori» da dove? Dalle proprie città (come se quel «proprio» ne indicasse una
sorta di proprietà privata)? E se sì, verso quali altre? O fuori dall'Italia? Ma
se molti di questi anomali «migranti» sono già fuggiti dal proprio paese, dalla
miseria, o dalle persecuzioni... O «fuori dal mondo», da questa Terra, da questa
vita, la nostra, che non tollera più le vite degli altri. O gli «stili di vita»
altri. C'è una verità terribile in questo atroce slogan, ed è che per gli ultimi
non c'è più spazio d'esistenza nel mondo di chi crede di essere tra i primi. Che
chi possiede solo la propria vita nuda «non è gente» per chi vive solo per
possedere. La città di Livorno, il suo sindaco, il presidente della Regione
Toscana, hanno risposto con civiltà, proclamando il lutto cittadino e mostrando
un sincero cordoglio. Ma il rischio rimane. L'antropologia del disprezzo e il
rischio di una disumanizzazione di massa nel mancato incontro con l'altro, sono
veleni in agguato. E il rapporto con gli «zingari» ne è un sensibilissimo
indicatore. Da questo misureremo il livello della nostra degradazione o della
nostra residua umanità.
Marco Revelli Il manifesto 12/8/07