Quanto ci costa il condono della corruzione

Paese meraviglioso l'Italia. Quando non si acceca da solo, chiude gli occhi. Il frastuono politico
assorda e il rumore mediatico lascia nascosta qualche verità e - in un canto - fatti che, al contrario,
meritano molta luce e l'attenzione dell'opinione pubblica.

La disciplina del «processo breve» ce l'abbiamo sotto gli occhi e vale la pena di farci i conti, senza lasciarci distrarre da ingenui e
imbonitori. Qualche punto fermo. Il disegno di legge pro divo Berlusconi non rende i processi
rapidi (è una cristallina scemenza)
. Quel provvedimento fabbrica una prescrizione svelta e
improvvisa come un fulmine che uccide. Solitamente, a fronte dei reati più gravi, uno Stato
responsabile - e leale con i suoi cittadini - si concede un tempo adeguato per accertare il reato e
punire i responsabili (la prescrizione non è altro). Più grave è il reato, più problematico e laborioso il
suo accertamento, maggiore è il tempo che lo Stato si riconosce prima di considerare estinto il
delitto. Le regole della prescrizione svelta e assassina (dei processi) capovolgono questo criterio di
efficienza e buon senso, criticità per la società e il Paese
. Mercati dominati da distorsioni e «tasse
immorali» (60 miliardi di euro ogni anno per la Corte dei Conti) garantiscono benefici soltanto agli
insiders della combriccola corruttiva. Oltre a perdere competitività, i mercati corrotti non attraggono
investimenti di capitale straniero e sono segnati da una bassa crescita (troppe barriere all'entrata,
troppi rischi di investimento). Non c'è studio o analisi che non confermi la relazione tra il grado di
corruzione e la crescita economica, soprattutto per quanto riguarda le medie e piccole imprese che
sono il nocciolo duro della nostra economia reale. Infatti, le piccole e medie imprese - si legge nella
relazione parlamentare che ha accompagnato la ratifica della convenzione dell'Onu contro la
corruzione diventata legge il 14 agosto del 2009 - , «oltre a non avere i mezzi strutturali e finanziari
delle grandi imprese (che consentono loro interventi diretti e distorsivi) risultano avere meno peso
politico e minori disponibilità economiche per far fronte alla richiesta di tangenti».

La corruzione diventa un costo fisso per le imprese e un onere che incide pesantemente nelle decisioni di
investimento.
Sono costi, per le piccole e medie imprese, che possono essere determinanti per
l'entrata nel mercato, così come possono causarne l'uscita dal mercato. E in ogni caso sono costi che
hanno rilevanti ricadute su altri fronti: ricerca, innovazioni tecnologiche, manutenzione, sicurezza
personale, tutela ambientale. Per queste ragioni, la corruzione dovrebbe trovare una sua assoluta
priorità nell'agenda politica e gli italiani se ne rendono conto anche se magari non sanno, come ha
scritto il ministro Renato Brunetta, che il balzello occulto della corruzione «equivale a una tassa di
mille euro l'anno per ogni italiano, neonati inclusi»
. Secondo Trasparency più grave è il reato,
minore è il tempo per giudicarlo. I magistrati avranno tutto il tempo per processare uno scippatore e
tempi contingentati per venire a capo, per dire, di abuso d'ufficio, frodi comunitarie, frodi fiscali,
bancarotta preferenziale, truffa semplice o aggravata: quel mascalzone di Bernard Madoff, che ha
trafugato 50 miliardi di dollari ai suoi investitori, ne gioirebbe maledicendo di non essere nato
italiano. Ora il disegno di legge potrà essere corretto e limato ma - statene certi - non potrà mai
lasciare per strada la corruzione propria e impropria perché Silvio Berlusconi, imputato di
corruzione in atti giudiziari e con il corrotto già condannato in appello (David Mills), ha bisogno di
quel «salvacondotto» per levarsi dai guai. Un primo risultato si può allora scolpire nella pietra:
l'Italia è il solo Paese dell'Occidente che considera la corruzione un reato non grave e dunque, se le
parole e le intenzioni hanno un senso, una pratica penalmente lieve, socialmente risibile,
economicamente tranquilla.
Nessuno pare chiedersi se ce lo possiamo permettere; quali ne saranno i
frutti; quali i costi economici e immateriali; quale il futuro di un Paese dove "corrotto" e
"corruttore" sono considerati attori sociali infinitamente meno pericolosi di "scippatore",
"immigrato clandestino", "automobilista distratto", e la corruzione così inoffensiva da meritare una
definitiva depenalizzazione o una permanente amnistia.

Il silenzio su questo aspetto decisivo della"prescrizione svelta", inaugurata dalla "legge Berlusconi", è sorprendente. È sbalorditivo che il
dibattito pubblico sul minaccioso pasticcio, cucinato dagli avvocati del premier nel suo interesse,
non veda protagonisti anche la Confindustria, chi ha cara la piccola e media impresa, i sindacati, gli
economisti, le autorità di controllo del mercato e della concorrenza, le associazioni dei risparmiatori
e dei consumatori, i ministri del governo che ancora oggi si dannano l'anima per dare competitività
al «sistema Italia». Come se il circuito mediatico e "pubblicitario" del presidente del consiglio fosse
riuscito a gabellare per autentica la storia di un ennesimo conflitto tra politica e giustizia, e dunque
soltanto affare per giuristi, toghe e giornalisti. Come se questo progetto criminofilo non parlasse di
sviluppo e arretratezza; di passato e di futuro; di convivenza civile, organizzazione sociale,
legittimità delle istituzioni, trasparenza dell'azione dei
policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese.

È stupefacente questo silenzio perché ognuno di noi paga ancora oggi e
pagherà domani, con l'ipoteca sul futuro di figli e nipoti, il prezzo della corruzione del passato,
quasi sette punti di prodotto interno lordo ogni anno, 25mila euro di debito per ciascun cittadino
della Repubblica, neonati inclusi.
Settanta miliardi di euro di interessi passivi, sottratti ogni anno alle infrastrutture, al welfare, alla formazione, alla ricerca.

È una condizione che corifei e turiferari,  vespi e minzolini, occultano all'opinione pubblica. È necessario qualche ricordo allora per chi crede
al «colpo di Stato giudiziario», alla finalità tutta politica dell'azione delle procure, favola ancora in
voga in queste ore nel talk-show influenzati dal Cavaliere. Quando Mani Pulite muove i suoi primi
passi, il giro di affari della corruzione italiana è di diecimila miliardi di lire l'anno, con un
indebitamento pubblico tra i 150 e il 250 mila miliardi più 15/25 miliardi di interessi passivi.
L'abitudine alla corruzione cancella ogni sensibilità del ceto politico per i conti pubblici. Inesistente
negli anni sessanta, il debito cresce fino al 60 per cento del prodotto interno lordo negli anni ottanta.
Sale al 70 per cento nel 1983. Tocca il 92 per cento nei quattro anni (1983/1987) di governo Craxi,
per chiudere alla vigilia di Mani Pulite, nel 1992, al 118 per cento. Non c'è dubbio che, in quegli
anni, una maggiore attenzione della magistratura alla corruzione, e la consapevolezza sociale del
danno che produce, favorisce il parziale rientro dal debito, utile per adeguarsi ai parametri di
Maastricht. Di quegli anni - 1993/1994 - è infatti il picco di denunce dei delitti di corruzione. Con il
tempo, la tensione si allenta. Lentamente la curva dei delitti denunciati decresce e nel 2000 torna ai
livelli del 1991, quelli antecedenti all'emersione di Tangentopoli.

Negli anni successivi la legislazione ad personam (taglio dei tempi di prescrizione per i reati economici, dalla corruzione al
falso in bilancio), i condoni fiscali, le difficoltà della legge sul "risparmio" (in realtà sulla
governance) chiudono il cerchio e una stagione. Da qui, allora, occorre muovere per comprendere e
giudicare un progetto che può spingere l'Italia, nell'interesse di uno, in prossimità di una condizione
da "paese emergente". Perché la difficoltà della nostra storia recente nasce nel fondo oscuro della
corruzione.
Tirarsene fuori è una necessità in quanto c'è - non è un segreto, anche se è trascurato dal
discorso pubblico e dai cantori dell'Egoarca - una simmetria perfetta tra la corruzione e le 1.
International, un organismo "no profit" che studia il fenomeno della corruzione a livello globale, il
44 per cento degli italiani crede che la corruzione «incide in modo significativo» sulla sua vita
personale e familiare; per il 92 per cento nel sistema economico; per il 95 nella vita politica; per il
85 sulla cultura e i valori della società. Più del 70 per cento della società ritiene che nei prossimi
anni la corruzione sia destinata a non diminuire. Il disastroso quadro nazionale è noto agli organismi internazionali.

È di questi giorni il rapporto del Consiglio d'Europa sulla corruzione in Italia. Il
Consiglio rileva che in Italia i casi di malversazione sono in aumento; che le condanne sono
diminuite; i processi non si concludono per le tattiche dilatorie che ritardano i dibattimenti e
favoriscono la prescrizione; la normativa è disorganica; la pubblica amministrazione ha una
discrezionalità che confina con l'arbitrarietà.
Il gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio
d'Europa ( Greco) ha inviato all'Italia 22 raccomandazioni di stampo amministrativo (introduzione
di standard etici, per dire), procedurali (per evitare l'interruzione dei processi) normative (nuove
figure di reato). La risposta alle preoccupazioni della comunità internazionale - che appena al G8
dell'Aquila ha sottoscritto il dodecalogo dell'Ocse per un global legal standard (peraltro fortemente
voluto da Tremonti) - è ora nel disegno di legge della "prescrizione svelta".

La corruzione è trascurabile. Non è il piombo sulle ali dell'economia italiana. Non è la tossina che avvelena il
metabolismo della società italiana. Non è il muro che ci impedisce di scorgere il futuro. È un
grattacapo del capo del governo.
Bisogna eliminarlo anche al prezzo di non avere più un futuro per
l'Italia intera. Dove sono in questo piano inclinato «gli uomini del fare» che credono nella loro
impresa, nel merito, nel mercato, nella concorrenza? E perché tacciono?


Giuseppe D'Avanzo     la Repubblica 18 novembre 2009