QUANTA INSISTENZA A DENIGRARE IL
PACIFISMO
Un amico
impegnato in un movimento cattolico per la pace mi chiede un'opinione su una
pagina del libro "Pace e guerra" del presidente del Pontificio Consiglio
Giustizia e Pace, card. Renato Raffaele Martino. Ho trascritto la pagina
aggiungendovi la numerazione dei singoli capoversi per semplificare i
riferimenti. Farò alcune osservazioni che sono correnti nella cultura di pace
intesa come nonviolenza attiva.
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È ben vero che la pace è una qualità delle persone (capoverso 1), ma non meno è
una qualità della relazione tra le persone. Ha radici interiori, ma fiorisce
nella relazione. Solo la pace interiore, la pace con se stessi, di chi non è
intimamente scisso, è una qualità tutta personale, sebbene anch'essa dipenda non
poco dalla qualità delle relazioni che si hanno o si sono avute con gli altri, e
si manifesti principalmente nella buona relazione con gli altri. La beatitudine
evangelica non parla di persone "in pace", ma di coloro che "fanno pace",
operano per la pace, costruiscono pace: "eirenepoioi" (Matteo 5, 9). Riguarda
direttamente la pace delle giuste relazioni sociali, non principalmente la
tranquillità individuale (che, anzi, Gesù è venuto a turbare). L'odierna cultura
di pace non è così ingenua e superficiale da affidarsi solo agli strumenti
giuridici e politici. Sa bene che la pace si radica dentro la persona, nella
educazione interiore, nella sanità psicologica, nella comunicazione aperta e
rispettosa. Per tutto questo, la pace va vista come una realtà allo stesso tempo
personale e sociale. Il rapporto tra le due dimensioni mi sembra debba essere
visto come circolare, senza un prima e un dopo. Ognuno dei due momenti nasce
dall'altro e produce l'altro.
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"L'uomo di pace semina la pace attorno a sé" (capoverso 2): questo è un fatto,
ma non è tutta la verità. Una generosa ingenuità delle persone buone fa loro
pensare che basti essere buoni perché ci sia pace nelle relazioni, nella
società. Non basta. Persone buone in strutture cattive fanno cose cattive. Un
buon padrone di schiavi non odia e non maltratta i suoi schiavi, ma, fin quando
non li riconosce liberi come lui, mantiene la struttura della schiavitù, che è
in sé un rapporto ingiusto, diseguale, perciò una struttura violenta. Quel
padrone è buono, ma fa una cosa cattiva. Un buon marito, ama e rispetta la
moglie, ma, se la ritiene per natura e diritto inferiore a sé, è un marito buono
nelle azioni e violento nelle idee. Ma le idee violente producono sempre, qua o
là, fatti violenti. La violenza non e' solo quella fisica, ma, più
profondamente, quella strutturale e, ancor più, quella culturale. Vedere la
radice culturale (mentale, interiore) della violenza, non permette di perdere di
vista le concrezioni della violenza nelle strutture sociali e tradizionali, che
producono violenza oggettiva degli atti. E viceversa: la bontà dei singoli atti
e comportamenti, non deve far perdere di vista la violenza consolidata in
strutture e forme sociali ingiuste, giustificate da idee ingiuste e violente.
Bisogna che le persone spirituali, preziose per la pace, si guardino dallo
spiritualismo, che riduce la visione intera della realtà. Lo spirito può essere
forte, ma la carne - cioè le forme sociali storiche - possono essere deboli,
scarse di giustizia, ingiuste. Altrimenti, ecco che i potenti violenti onorano i
discorsi spirituali di pace personale e privata e continuano nella loro violenza
pubblica.
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Del pacifismo, l'Autore di questa pagina parla soprattutto con sospetto
(capoverso 3): può degenerare, tradire lo scopo della pace, diventare una
ideologia, voler vincere, farsi un potere violento. Eh! Sembra più pericoloso
della guerra! È utile il pacifismo, dice Martino, diffonde passione per la pace
e educa alla pace, ma deve essere sempre "emendato", cioè ricondotto alla pace
interiore. Ora, se un pacifismo è coerente, se cioè non condanna solo alcune
guerre, ma tutte, è buona cosa. Sarà meno credibile se non è un'azione di
persone giuste, e tuttavia chiede alla politica una cosa giusta. Il suo limite è
di essere unicamente contro la guerra, che è solamente la forma più grossolana e
vistosa di violenza, ma non la più profonda e grave. Perciò la nonviolenza vale
più del pacifismo, perché lo include ma lotta soprattutto contro le più profonde
violenze, strutturali e culturali, coi mezzi forti dell'umanità e della verità.
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"Testimone profetico della pace" (capoverso 4) è il termine con cui questo testo
chiama, senza nominarli, i nonviolenti (citando il Concilio, Gaudium et Spes
78). Sembra però che la loro ispirazione sia soltanto religiosa cristiana, il
che non è giusto, perché ci sono molti nonviolenti di altre religioni, o senza
religione, ma con forte sensibilità umana. Scrive Martino che "nella Chiesa è
sempre esistito un atteggiamento decisivo e audace che punta esclusivamente
all'utilizzo di forme di difesa non violenta".
Due osservazioni doverose: scrivendo "non violenta" in due parole staccate,
l'idea che si esprime è negativa: difesa senza uso di mezzi violenti. Ma la
"nonviolenza" - che, per questa ragione, si scrive ormai correntemente negli
studi specifici in parola unica - è idea e pratica positiva: dice la resistenza
e la lotta giusta con mezzi giusti (le molte tecniche e le regole morali
dell'azione nonviolenta), più profondamente forti ed efficaci della violenza che
vuole difendere alcuni con l'offendere e l'uccidere altri.
Seconda osservazione: è vero che nella Chiesa ci sono sempre state persone
individualmente nonviolente, ma non è proprio vero che nella Chiesa abbia avuto
consistenza e riconoscimento la nonviolenza come forma di difesa collettiva;
normalmente l'istituzione ecclesiale, fino ad oggi, assolve le coscienze che
obbediscono all'autorità politica anche nel fare la guerra e, fino al Concilio,
condannava per superbia morale e presunzione chi facesse obiezione di coscienza
al dovere militare di uccidere. La dottrina morale ufficiale non condannava né
criticava le teorie e le pratiche politiche che con tutta facilità
giustificavano le guerre. L'autorità religiosa si è per lo più dimostrata più
delicata coi potenti che con le coscienze dei "testimoni profetici della pace".
Molti di questi testimoni sono stati lasciati soli o, peggio, condannati. Oggi
l'autorità ecclesiastica esorta i potenti a non fare la guerra, ma non
accompagna le coscienze pacifiche ad opporre disobbedienza civile ai comandi di
guerra. È vero o non è vero? Questo non si può negare per amor di Chiesa.
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Nella giusta rivendicazione dell'azione degli ultimi papi per la pace (capoverso
5; ma si doveva cominciare da Giovanni XXIII), la prima strana preoccupazione di
Martino è difendere i papi - specialmente Giovanni Paolo II - dalla qualifica di
"pacifisti", per tre ragioni (proposte da Andrea Riccardi).
La prima è questa: ha sempre reso onore a chi è morto per la patria, cioè ai
militari. Vale a dire: non ha messo in discussione la difesa militare. Chi muore
militare, muore dopo aver ucciso, o perché non è riuscito ad uccidere. Senza
mancare di pietà, e senza giudicare le coscienze, bisogna pure, nella ricerca
della pace, giudicare l'uso del dare la morte per comando politico. Che ne è del
comandamento di "non uccidere" in questa sbrigativa assoluzione, attribuita a
papa Wojtyla, dell'azione militare, per timore di vederlo accomunato ai
"pacifisti", cioè appunto a coloro che, credenti o non credenti in Dio, in nome
del "non uccidere", vogliono che anche nelle contese politiche si obbedisca a
questa sua parola?
La seconda ragione per cui il papa non è pacifista, secondo Riccardi e Martino,
è che non ha mai condannato "a senso unico" le guerre, come se tutti i
pacifisti, per definizione, condannassero alcune guerre e non altre, a loro
comodo. Questo discorso non è giusto né corretto.
La terza ragione è che quel papa, tra i primi, ha ipotizzato nel 2000 forme di
intervento umanitario e di interposizione. Si può dire questo solo ignorando, o
volendo ignorare, per dare lustro indebito al papa, che tali azioni sono ben
precedenti, per iniziative dal basso del popolo della pace. Papa Wojtyla ha veri
meriti nella ricerca della pace e non merita che gli si attribuiscano primati
non suoi.
Ma c'è una quarta ragione (ripresa dal capoverso 3): il pacifismo è soprattutto
una cosa brutta, perché non ha la "sapienza del realismo cristiano", e perché è
volontà di imporre la pace (che sarebbe, ohibò, impedire al proprio governo di
fare la guerra), invece di attenderla come dono di Dio e lasciarsene conquistare
nell'intimo. Così siamo di nuovo allo spiritualismo iniziale, riduzione
unilaterale della spiritualità pacifica staccata dall'azione civile e politica,
che ne è il sano frutto.
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Siamo, così, alla figura del "pacificatore" (capoverso 6), o "operatore di
pace": è colui che agisce in modo concreto e realistico nei conflitti storici
portando parole, atteggiamenti e soluzioni di pace. Confrontata col pacifismo,
mosso spesso da "ideologia" e "progetto politico" (è forse un male?), l'azione
pacificatrice è invece mossa dall'amore (perché, nel pacifismo non c'è amore?).
Questa insistenza stucchevole a denigrare il pacifismo (i nonviolenti ne
criticano i limiti, ma non lo disprezzano) e a prenderne accuratamente le
distanze, costringe a sospettare che il diplomatico ecclesiastico si preoccupi
di non trovarsi tra i critici dei governi dalle politiche bellicose. Aggiungo:
stiamo attenti almeno al linguaggio: il titolo di "pacificatore" spesso è stato
fatto proprio da azioni militari che hanno violentemente represso moti popolari
anche giusti.
"Pacificazione" è nella storia per lo più il nome dato alla conquista, e dunque
quella "imposizione di pace" che Martino attribuisce invece stranamente al
pacifismo. Ricordiamo tutti Tacito: "Dove fanno un deserto lo chiamano pace" (De
vita et moribus Julii Agricolae, cap. 30). E ricordiamo "L'ordine regna a
Varsavia", detto alla Camera dal ministro degli esteri francese dopo la
durissima repressione russa, nel settembre 1831. Anche la guerra statunitense in
Vietnam ebbe il nome di "pacificazione".
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L'Autore afferma semplicemente (capoverso 7) "il primato della pace intesa come
dono di Dio rispetto alla pace concepita come conquista dell'uomo" e che "i
primi pacificatori sono gli uomini di preghiera". La prima cosa, io dico che si
può pensare anche della salute fisica, ma non per questo vedo meno necessaria la
nostra cura attiva della salute. Dio ha messo il mondo nella nostre mani,
affidato alla nostra responsabilità: mentre crediamo e invochiamo il suo aiuto
interiore, dobbiamo gestire il mondo come se dipendesse esclusivamente da noi.
Io credo davvero nell'efficacia storica della preghiera, che dà forza spirituale
all'azione, eppure quando la preghiera è - come è spesso - restituire a Dio il
compito che egli ha dato a noi, allora non è con questa preghiera che si opera
per la pace. La Chiesa cattolica ha colpe storiche e meriti recenti riguardo
alla pace. Farebbe bene, per giustizia, a non rivendicare troppo e, sempre nella
forma propria delle sue funzioni e competenze, ad affiancarsi, senza
paternalismi né strumentalizzazioni, ma anche senza ingiusti sospetti, al
movimento mondiale per la pace, piuttosto che agli Stati armati. Grazie a Dio,
tanti cristiani sono dentro quel movimento, attivi e pensanti, senza le
preoccupazioni anguste delle diplomazie istituzionali.
Enrico Peyretti Adista Documenti n.8 2006