Quando si muore?
Non lo sanno né la legge né la fede
La morte del cervello non è la morte dell’individuo. Quindi fermiamo i prelievi
di organi nei
cadaveri a cuor battente, anche se nel nostro paese salvano 3mila persone ogni
anno, perché quelli
cadaveri, ancora non sono. Questo è, in sintesi, l’appello lanciato dalla
storica Lucetta Scaraffia,
dalla prima pagina dell’Osservatore Romano, e ripreso in un tam tam scomposto da
giornali e
telegiornali di tutto il paese. Un appello che ha suscitato immediatamente
numerose reazioni, anche
in Vaticano. E soprattutto ha provocato reazioni accese nei medici, che adesso
hanno paura che da
domani il sistema dei trapianti vada al tappeto, steso dal cosiddetto “effetto
Celentano”: cioè un calo
drastico delle donazioni di organi per la diffusione di un insensato panico da
chirurgo pazzo, capace
di espiantare cuori e fegati da corpi ancora vivi, causato dall’appello pubblico
di un personaggio
autorevole ma non competente in materia, come successe con l’omonimo cantante
nel 2001 durante
un varietà in diretta alla tivù.
Ma la questione sollevata dalla Scaraffia è sottile, perché la morte cerebrale
come criterio di morte
clinica (quando il medico legge l’orologio e sentenzia la cessazione della vita
del paziente) è stato
deciso quarant’anni fa e oggi ricomincia effettivamente a essere discusso nel
mondo scientifico.
Quello che invece preoccupa i medici è il passaggio successivo proposto dalla
Scaraffia e da
Celentano, cioè il passaggio alla donazione di organi. Perché per quanto si
discuta, oggi come secoli
fa, di quando finisca la vita e di quando cominci la morte, ciò non toglie che
tutti siano concordi nel
dire che al momento della cessazione delle funzioni cerebrali, oggi, non ci sono
più possibilità di
interrompere il percorso che porta un individuo vivo a diventare un corpo morto.
E che sia quello il
momento giusto per prelevarne gli organi. Il fatto è che la morte non è un
istante, ma un processo,
che può essere più o meno lungo anche a seconda del medico che si incontra, e
che oggi può
rivelarsi lunghissimo grazie, o per colpa, della moderna terapia intensiva. Per
cui i famosi 21
grammi di anima, che se ne vanno istantaneamente quando la vita abbandona il
corpo, per la scienza
non esistono: esistono piuttosto cellule, tessuti e organi, che piano piano
smettono di funzionare,
uno alla volta, mentre l’organismo cessa di funzionare come un tutto dopo che il
cuore ha battuto il
suo ultimo battito. Ma un momento convenzionale ci vuole, o almeno così la
pensavano gli esperti
di Harvard, che si trovarono a discutere della questione all’indomani del primo
trapianto di cuore.
Un istante convenzionale, dopo il quale è possibile trattare il corpo del malato
come un cadavere,
cessare ogni terapia o ogni supporto, e anche, ovviamente previo consenso dei
familiari o del
malato stesso, prelevare gli organi per la donazione. Così, il 5 agosto del 1968
fu pubblicato sul
giornale dell’American Medical Association il rapporto che definiva la morte
come morte cerebrale.
E su questo concetto si trovò anche l’adesione di diverse confessioni, tra cui
quella cattolica, che
anzi incoraggia la donazione di organi. Era stata un’operazione lungimirante, in
un certo senso,
perché i trapianti diventarono una chirurgia di routine solo all’inizio degli
anni ottanta, con
l’introduzione dei farmaci immunosoppressori che permettono al malato
ricevente di non avere
delle reazioni di rigetto e di condurre una vita praticamente normale. A quella
definizione si sono adeguate le leggi di molti paesi, compreso il nostro.
E allora dov’è la discussione scientifica? È sul poter ancora oggi, nel
2008, definire la cessazione delle funzioni cerebrali assenza di vita, come se
fosse possibile affermare con certezza che non è vita quel poco di funzionalità
nervosa od ormonale
che i corpi in morte cerebrale a volte manifestano. C’è chi preferisce dire che
la morte cerebrale è
una prognosi, pessima, irreversibile, certa: un momento prima della morte vera,
quella cardiaca.
Ma ancora un momento. È questo, per esempio, il succo del dibattito delle
settimane scorse sulla rivista
medica New England Journal of Medicine, in cui, tra le altre cose, si propone di
rivedere la
cosiddetta dead donor rule, cioè la regola per cui si devono prelevare organi
solo a cadaveri. Si
dice, cioè, che si può pensare di prelevare organi a corpi che stanno certamente
morendo (cioè che
sono in morte cerebrale secondo le definizioni correnti) anche senza l’ipocrisia
di doverli definire
già morti per legge. Ma questa non è l’unica posizione nel mondo scientifico.
Anzi, una grossa fetta
della medicina attuale vive benissimo con le cose così come sono, con il
cervello che per legge è
sede della vita. Nel 1968 la medicina aveva fatto passi da gigante rispetto ai
decenni precedenti, e si
era visto che era possibile riavviare i cuori ma non i cervelli, e tenere in
vita corpi ventilati
artificialmente e con la circolazione ancora in funzione, ma senza più nessuna
coscienza di sé e del
mondo. Poi c’erano stati i primi trapianti e soprattutto il trapianto di cuore.
Allora, se era possibile
spostare un cuore da un corpo all’altro, forse significava che era il cervello
la sede della vita, si
pensò. E questo si propose al mondo. Questa la scienza. Ma le leggi sono cose
diverse, tanto che
oggi, per assurdo, si può essere vivi in America, ma morti in Italia. E le
morali anche: si è spesso
vivi per un cattolico, ma morti per un laico. Però sul fatto che gli organi di
persone
irrimediabilmente decedute possano essere utilizzati per ridare la vita ad
altri, su questo la Chiesa è
sempre stata d’accordo. E allora che cos’è successo adesso? La sensazione
degli addetti ai lavori è
che la Chiesa stia vivendo un momento di grave difficoltà con il caso di Eluana
Englaro: visto che
la soluzione definitiva sembra vicina adesso i cattolici annaspano, cercano di
confondere le acque,
oppure semplicemente sono confusi. E nel dubbio, ha tuonato Maurizio Mori,
presidente della
Consulta di Bioetica, hanno deciso che deve morire Sansone con tutti i filistei.
Anzi no, hanno
deciso che devono rimanere vivi, se non per la loro coscienza, almeno per legge.
Silvia Bencivelli Liberazione 4 settembre 2008
Vaticano, offensiva
andata male (finora)
Il Vaticano frena e da più parti fa sapere che l'articolo di Lucetta Scaraffia,
pubblicato ieri sulla
prima pagina dell' Osservatore romano , non cambia la dottrina né gli
orientamenti della Chiesa
sulla «morte cerebrale» e tanto meno sui trapianti.
Il "ministero della sanità" della Santa Sede, pur mostrandosi interessato alla
riapertura del dibattito,
assicura che quella apparsa sul quotidiano pontificio è solo «un'opinione
personale». Il portavoce
vaticano Federico Lombardi è stato ancora più lesto a prendere le distanze. La
reazione di Adriano
Pessina, direttore del Centro di bioetica dell'Università cattolica, è pesante.
Respinge l'articolo
definendolo anche «inesatto». Le strutture sanitarie cattoliche, del resto, sono
direttamente
impegnate nei trapianti e non gradiscono affatto obiezioni che assumono
addirittura il carattere di
richiami morali.
Dal canto suo, l'Osservatore si guarda bene dal tornare sulla faccenda. Il
direttore Gian Maria Vian
sostiene di aver voluto «aprire un dibattito importante» ma sottolinea che quel
commento non può
essere considerato nemmeno un editoriale, visto che gli editoriali compaiono
sulla parte sinistra del
foglio e sono gli unici attribuibili alla direzione. Soltanto quelli «impegnano
la linea del giornale»,
precisa Vian, il quale può vantarsi di aver portato in edicola un foglio
decisamente più vivace.
Ma che cosa c'è dietro questa improvvisa fiammata contro il parametro medico
universalmente
accettato della morte cerebrale? Viene subito da pensare al caso Englaro e alla
generale alzata di
toni vaticani contro l'eutanasia e i testamenti biologici. Tutto questo conta,
ovviamente. Eppure
l'imbarazzo e le precisazioni che l'articolo ha suscitato dentro i sacri palazzi
rivelano in realtà un
conflitto di posizioni che cova da tempo soprattutto all'interno delle accademie
pontificie per la
scienza e per la vita. Inoltre dal 6 all'8 novembre si terrà un congresso
mondiale sulla donazione di
organi promosso dall'Accademia pontificia per la vita, dalla Federazione
internazionale dei medici
cattolici e dal Centro Trapianti. Sembra proprio un'occasione d'oro per una
offensiva che modifichi
le posizioni ufficiali fin qui tenute dalla Chiesa a favore del parametro di
Harvard.
Andiamo indietro di qualche tempo. Era una calda mattinata di fine agosto del
2000, l'anno del
grande Giubileo. Giovanni Paolo II giunse all'esterno del Palazzo dei congressi
di Roma accolto dal
professor Raffaello Cortesini, presidente del 18° congresso internazionale dei
trapianti. Wojtyla
pronunciò il suo importante discorso. Si domandò, ovviamente, quando si possa
considerare una
persona «certamente morta» tanto da legittimare l'espianto di organi. E offrì
una risposta molto
netta. «Esiste una sola morte della persona come conseguenza della separazione
del principio vitale
o anima dalla corporeità». E tuttavia, poiché la scienza individua modalità per
accertare la morte, il
criterio della «cosiddetta morte cerebrale - così disse il papa polacco -, se
applicato
scrupolosamente, non appare in contrasto con una corretta concezione
antropologica».
Grande regista dell'intervento papale a quel simposio fu monsignor Elio Sgreccia,
il capo della
Pontificia Accademia per la vita che è stato sostituito poche settimane fa da
Rino Fisichella.
Sgreccia è un sostenitore dei trapianti ed anzi in quella occasione la sua
apertura di credito verso il
mondo scientifico in materia di organi servì a compensare la dura opposizione
espressa invece
contro la ricerca sulle staminali da embrione e su qualsiasi forma di clonazione
umana.
D'altra parte il catechismo cattolico elogia la donazione degli organi come
«atto nobile e meritorio»,
il primo a incoraggiare questa pratica fu addirittura Pio XII e nel '99 il
cardinal Ratzinger rivelò di
essere iscritto ad un'associazione per la donazione.
Il dubbio dottrinario sulla "morte cerebrale" cominciò però a manifestarsi in
due convegni vaticani
tra il 2005 e il 2006. Benché le conclusioni siano state poi una doccia fredda
per i dubbiosi, l'ala più
conservatrice non si è arresa. L'agenzia Asca ieri ha intervistato Roberto De
Mattei, docente
all'università dei Legionari di Cristo e autore della raccolta di saggi "Finis
vitae", curata dal Cnr e
ripresa appunto da Scaraffia nel suo articolo. Nel volume compaiono anche gli
interventi finora
inediti di quattro esponenti dell'accademia pontificia che si erano battuti
contro i trapianti da "morto
cerebrale" invocando il principio di precauzione. L'ala conservatrice si
sente incoraggiata dal vento
ratzingeriano così incline ai richiami del fondamentalismo, che si tratti di
creazionismo o sesso o
embrione. Tra gli oppositori della "morte cerebrale" figura un vescovo
americano. Da quelle parti la
Chiesa deve reggere la concorrenza di confessioni più oscurantiste.
Fulvio Fania Liberazione 4settembre 2008