Quando la vita si fa crudele dittatura
Sono giorni concitati e drammatici per le cronache bioetiche del nostro Paese.
Al Nord un corpo che aveva ospitato una persona di nome Eluana Englaro,
scomparsa insieme alla sua coscienza 16 anni fa dopo un incidente stradale, sta
per essere trasferito da una casa di cura a un Hospice dopo che sarà stato
disattivato il sondino naso-gastrico che lo alimenta artificialmente. Con
l’esaurirsi delle funzioni dell’involucro corporeo, alla morte biografica di
Eluana - la morte della possibilità di raccontarsi, di mettersi in relazione e
di dare un senso alla sua propria vita - seguirà così anche quella organica e
anagrafica. Solo allora, e grazie a due storiche sentenze giudiziarie, si avrà
il riconoscimento delle sue volontà: quelle che aveva espresso quando, ignara
della sua sorte futura, era capace di pronunciarsi su cosa per lei sarebbe stata
dignità del vivere e del morire nell’ipotesi di poter piombare un giorno nel
buio dello stato vegetativo permanente (SVP) in cui purtroppo poi le accadde
effettivamente di entrare.
Al Sud un neonato di tre mesi, Davide Marasco, nato il 28 aprile scorso a Foggia
e protagonista di un caso assurto alle cronache nazionali, è morto dopo essere
stato sottoposto a rianimazione e dialisi forzate nel tentativo di farlo
sopravvivere. Davide era affetto da sindrome di Potter e presentava un quadro
clinico caratterizzato da mancanza dei reni, inadeguato sviluppo degli ureteri,
della vescica e dei polmoni, malformazioni intestinali e rettali.
Sia lo SVP che la sopravvivenza di neonati colpiti da patologie incompatibili
con la vita sono, paradossalmente, nuove condizioni del morire rese possibili
dall’avvento delle tecnologie di rianimazione e sostegno vitale. Fino a qualche
decennio fa il corso ’naturale’ delle cose avrebbe portato alla morte quasi
istantanea i protagonisti di queste due tragiche vicende. Oggi il loro destino
dipende in gran parte dalle nostre decisioni e dalla nostra responsabilità.
Sia nel caso di Eluana che in quello di Davide si è optato per soluzioni
vitalistiche, pensando che il miglior interesse dei due fosse di prolungarla, la
vita, il più possibile, in nome della sua sacralità. Il paternalismo medico è
venuto in soccorso del vitalismo. Nel caso della Englaro si sono moltiplicate
anche in queste ultime ore una serie di (irrispettose) pressioni - politiche,
accademiche, religiose - affinché il padre-tutore non la faccia morire come ella
desiderava e come due Tribunali della Repubblica hanno giudicato lecito
autorizzare a fare.
Nel caso di Davide è bastato che i genitori manifestassero una titubanza nel
dare il consenso alle cure intensive che subito il bimbo è stato sottratto alla
loro potestà e affidato al primario degli Ospedali Riuniti di Foggia per essere
sottoposto a rianimazione e dialisi. Prigionieri forse dell’alone positivo e di
mistero che circonda la parola "vita", si fatica a misurarsi con l’idea che ci
siano situazioni in cui vivere è un disvalore o un’oppressione, o perché il
vivere è ridotto alle sofferenze e agli accanimenti di quella che non è terapia
ma devastante e coatta sperimentazione medica (Davide), o perché le condizioni
della vita sono divenute radicalmente incompatibili con le idee di dignità
personale nutrite nel corso dell’esistenza cosciente (Eluana).
È difficile però scalfire lo zelo dei vitalisti. Essi non si accorgono che
l’astratta ideologia cui aderiscono - "la Vita è sacra" - può rivelarsi crudele
nelle situazioni in cui, applicandola con fanatica coerenza, genera solo una
inutile e penosa sospensione del morire. Incapace in questi casi di garantire un
miglioramento delle condizioni di salute, il vitalismo si rivela spesso veicolo
dei danni provocati da un interventismo medico fine a se stesso. Ciò che fa
apparire l’uno e l’altro “giusti” è che sembrano la soluzione più semplice e
ovvia, optando per la quale sembra di essere meno in gioco con le nostre
responsabilità.
Sergio Bartolommei, Dipartimento di Filosofia, Università di Pisa, Consulta di Bioetica, Pisa l’Unità 25.7.08