Quando la morte viene disumanizzata
La morte torna a parlarci, in questa ennesima estate. E ci fa domande molto
dure. Ci sono i corpicini delle ragazzine rom, affogate pochi minuti prima,
sdraiate sulla spiaggia mentre tutt’intorno i bagnanti, nell’assoluta
indifferenza, continuano a prendere il sole. Ci sono i corpi di alcuni giovani
dilaniati dalle lamiere, di nuovo all’incrocio tra la Nomentana e Viale Regina
Margherita (Roma caput mundi), e altri ragazzi che si precipitano a fissare
quell’immagine coi loro videofonini, per captare qualche frammento di orrore.
C’è quella sedia elettrica di un giostraio, con seduto sopra un manichino molto
vivido, cui per il divertimento del pubblico pagante vengono scaricati addosso
non so quanti Volt: era l’attrazione principale del luna park, finché non sono
intervenute le autorità. A prima vista, queste tre schegge di cronaca sono molto
diverse tra loro, quasi opposte. Il caso delle bambine affogate davanti ad una
spiaggia vicino Napoli è il più inquietante. Il quotidiano britannico The
Independent l’altro giorno titolava in prima pagina “La vergogna italiana”.
Quella foto che è finita sui giornali di tutto il mondo (quei due piccoli corpi
che sbucano da sotto un telo, un signore che gli passa distrattamente davanti
mentre chiacchiera al cellulare, gli altri che non demordono dalla tintarella)
ci parla di freddezza, distanza, disinteresse. Di una specie di straniamento, di
fronte alla morte. Questa non è più qualcosa che è possibile elaborare solo con
una serie di riti coltivati nei millenni? Non è più qualcosa che dovette
impattare violentemente con l’ovvietà assolata di una giornata al mare tra
ombrelloni e l’odore pungente delle creme abbronzanti?
Non sappiamo niente di quei bagnanti, a parte il fatto che se ne stanno lì come
se nulla fosse: non sappiamo, per esempio, se sapessero che si trattava di bimbe
rom. Si potrebbe anche pensare che l’indifferenza sia una sorta di schermo di
fronte ad un fatto troppo grande, troppo incomprensibile, quasi imbarazzante:
non sapendo che fare, si continua a prendere il sole. In ogni caso, però, la
morte qui è rimasta distante, è rimasta un interrogativo che si è voluto tenere
lontano, come se non ci riguardasse. Come se quelle ragazzine non fossero
davvero morte, oppure come se non fossero davvero delle ragazzine, ossia degli
esseri umani, ma qualcosa di estraneo a noi. Davvero ormai ci è estranea la
morte? Spesso ci dicono che, nell’epoca della comunicazione di massa, è
diventata “solo uno spettacolo”. È per questo che un gruppo di giovani, di
fronte ad un incidente, ha avuto come primo pensiero quello di “immortalare la
morte” fotografando feriti e registrando urla a rotta di collo? È per questo che
è “divertente” una sedia elettrica che imita l’uccisione di un uomo nel modo più
realistico possibile? Oppure questi tre episodi, apparentemente opposti
(disinteresse e distanza nel primo, attrazione morbosa negli altri due) in fondo
ci dicono la stessa cosa? Non danno, forse, il segno di quanto sia mutato il
cosiddetto “senso comune” degli italiani? E non è parente, questo
atteggiamento, della disinvoltura con cui molti i mass media e molta politica,
in nome di una accezione astratta di ciò che è vita e morte, vampirizzano la
vicenda di Eluana come se il dolore della famiglia fosse solo un titolo
d’agenzia e non una profonda e intima ferita? La morte che diventa
un’astrazione e in quanto tale distante, “l’immorale” che diventa ovvio,
l’accettazione fredda di quello che un tempo veniva considerato orrore.
E ancora. L’altro da sé che viene “deumanizzato” (come nel caso delle bimbe rom
di Napoli), la sofferenza del prossimo che diventa accettabile solo attraverso
una simulazione della realtà per come viene riprodotta dai media (vedi il caso
dei ragazzini e dei loro videofonini nell’incidente della Nomentana): è il
sintomo della fragilità di un paese quando via via sembrano smottare quelli che
fino a un minuto prima parevano essere i capisaldi su cui si fondano le regole
di condivisione di una società definita civile. Ma non è una cosa nuova. Ogni
tanto i segnali di uno scivolamento dalla cosiddetta normalità di una vita
regolata e borghese verso il vuoto si moltiplicano. L’importante è solo non
accorgersene troppo tardi.
Roberto Brunelli l'Unità 28.7.08