Quando la Chiesa scrive la "nota"

L'avvento di Bagnasco si è subito contraddistinto per la perfetta sintonia mantenuta rispetto con il suo predecessore. Ma la posizione del presidente dei vescovi non rispecchia l'intero pensiero della comunità cattolica. L'esempio di don Bianchi


Alla fine, attesa quasi come un giudizio divino da laici e cattolici, la grande ingerenza si materializzò. La Nota della Cei sui Dico ha due pregi: brevità e onestà. Troppo spesso infatti, persino nelle parole di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, la Chiesa si era appellata a una presunta distinzione tra politica e fede, tra stato come comunità di cittadini e Chiesa come comunità di fedeli. Salvo poi contraddirsi in documenti ed encicliche di ben altro segno. Ci voleva Ruini, del quale il successore Bagnasco ha solo ricevuto in eredità (immaginiamo non troppo sgradita) la linea politica, a mettere nero su bianco quello che fino a pochi decenni fa, dopo il Concilio, ma persino dopo la morte di Pio IX, sarebbe stato impensabile dire.

La Chiesa può e deve intervenire nella vita politica, persino nelle singole leggi. Perché la politica cos'altro è se non la ricerca del bene comune? Allora perché ostinarsi a cercarlo attraverso farraginosi processi democratici e contorte acquisizioni politiche e ideologiche, se c'è chi la Verità sul bene comune già ce l'ha, ed è solo ansioso di trasformarla in legge? Questa è la Nota dei vescovi italiani, nient'altro.

Sarebbe lungo (ed è stato ampiamente fatto in questi giorni) cercare un senso per così dire contenutistico al testo (cioè se il ddl Bindi-Pollastrini sia quel mostro infernale dipinto dai vescovi, come si sono affannati a negare i "cattolici democratici" alla Fioroni). Sarebbe lungo e probabilmente inutile. Perché il fatto storico, antichissimo e nuovo allo stesso tempo, non sta nel contenuto della Nota, ma nella Nota. Che, a leggerla, sembra solo essere la prima di tante Note, simili persino nel nome alle temutissime reprimende che si prendevano a scuola alla prima marachella. Ai politici italiani (unici in Europa a meritare il dubbio onore) i vescovi sono pronti a dare i voti, a giudicarne le azioni e le leggi sulla base del Vangelo, a condizionarne le scelte politiche (naturalmente ignorando quelle private: basta sfogliare lo stato di famiglia di tutti i leader del centrodestra, Casini in testa), e, in definitiva, a porsi come suprema Corte non prevista dalla Costituzione, attraverso cui tutte le leggi dovranno passare.

I vescovi, recita la Nota, si sentono chiamati in causa "come custodi di una Verità e di una Sapienza che traggono la loro origine dal Vangelo". Come sommi sacerdoti in una nuova Babilonia, l'ultima parola spetta a loro. Che infatti ricordano opportunamente la dichiarazione del Sant'Uffizio del 2002, firmata Ratzinger e all'epoca forse sottovalutata nella sua portata, secondo cui il fedele (non più "cittadino", evidentemente), "non può appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società".

Come dicevamo, viva la chiarezza. Sono parole che prefigurano né più né meno che uno stato etico. Non più diritti e doveri individuali, e una civile convivenza collettiva basata sulla libertà e l'autodeterminazione, saranno alla base del nostro vivere comune. Ma una serie di "valori" condivisibili o meno, ma comunque "veri", custoditi da una casta sacerdotale e imprescindibili anche, poniamo, se la maggioranza della popolazione non li condivide. Questa la logica, che non è altro che la riproposizione del cattolicesimo intransigente dell'Ottocento, quando si ruppe l'alleanza col Trono (anche perché diversi troni si ruppero per conto loro) e la Chiesa di Pio IX rifiutò qualunque dialogo con quei pericolosi regimi che si andavano instaurando in Europa, chiamati democrazie. Per una ragione apparentemente inconfutabile: la Verità, anche se minoritaria, rimane vera. C'è un problema però, anche se i cattolici più oltranzisti (che non sono maggioranza neanche nel vasto mondo cattolico, si rassegnino) si ostinano a non considerate: che negli ultimi 150 anni c'è stata un'elaborazione teologica e politica in seno alla Chiesa, ci sono stati correnti innovatrici e grandi pensatori che hanno proposto soluzioni per superare l'impasse, conciliando Fede e Democrazia. Da Gioberti a Rosmini, da Romolo Murri a don Luigi Sturzo. E si è stabilito chiaramente che la Chiesa può e deve parlare alle coscienze, agire sul piano morale e etico, ma mai sconfinare su quello politico, anche quando è convinta che il Parlamento sbagli. Perché le leggi sono di tutti, cattolici e non cattolici, e servono a regolarne precisamente la convivenza e la libertà di vivere il proprio credo o i propri ideali, limitate soltanto dalla violazione della libertà altrui.

A sancirlo non fu una riunione di carbonari, ma un Concilio ecumenico, il Vaticano II, che nella "Gaudium et Spes" sembrava aver messo la parola fine alla contesa. E ora, ci risiamo. Il fondamentalismo che ha pervaso la cittadella vaticana si nutre dell'ignoranza di parte dei suoi fedeli, che non hanno idea di cosa sia stata la Chiesa di Roma nei millenni, e ignorano totalmente che questo modello di Chiesa ratzingeriana, ingerente e onnivora nell'entrare nel gioco della democrazia senza accettarne le regole, non è l'"ideal tipo" della Chiesa, ma una sua manifestazione relativamente recente, diciamo dal "Du Pape" di de Maistre, scritto due secoli fa, un'inezia rispetto ai duemila e passa anni di storia.

Ignorano che ci sono tradizioni diverse, spinte diverse, e che la Verità di cui i Vescovi si proclamano custodi è la loro verità, non quella del Vangelo, che non a caso è uguale parola per parola per tutte le confessioni cristiane, ma solo dai Cattolici attuali è letto in modo così oppressivo e assolutista. "Non è il Vangelo che cambia - spiegava Giovanni XXIII ai vescovi durante il Concilio, che dopo la Chiesa della Verità assoluta di Pio IX si interrogavano sull'utilità stessa di un Concilio - siamo noi che iniziamo a comprenderlo meglio".

Ma la gravità del momento sta nella decisa tracimazione che questa Chiesa romana, con le sue rigidità monarchiche e la sua concezione medievale di verità rivelata e di Storia sta effettuando sul campo più laico per eccellenza, quello dell'"agorà", dei valori condivisi, delle decisioni per il bene della patria e dei suoi cittadini.

È inaccettabile che un politico liberamente eletto sia chiamato a non rispondere ai suoi elettori, ma ai grandi sacerdoti. Inaccettabile e inquietante. Se fossimo tentati a fare lo stesso errore della Chiesa, cioè di "ingerire" sulle sue vicende, vorremmo suggerirle di guardare più alle coscienze individuali, alle singole vite da buoni o non buoni cristiani, e lavorare per un mondo con meno disuguaglianza, meno intolleranza e ipocrisia. Meno litanie ("non chi dice Signore Signore, entrerà nel Regno dei Cieli"... sospirava già allora inascoltato Gesù) e più amore per il prossimo.

Lo riassume bene un uomo di Fede come don Bianchi, non un bolscevico ma il  priore della comunità monastica di Bose: "Anche in questi "giorni cattivi" - ha scritto sulla "Stampa" pochi giorni fa -  i cattolici ricordino che il futuro della fede non dipende mai da leggi dello stato ma dalla fedeltà al Vangelo e dall'attenzione agli uomini in mezzo ai quali vivono, e dunque ai segni dei tempi".

Paolo Giorgi,    Aprile online 30 marzo 2007