Quando la Chiesa mostra il volto duro

 

Dunque, si è tornato a giocare e, puntualmente, gli incidenti per fortuna in tono minore, non sono mancati. Ma, cosa ben più grave i fischi alla Polizia hanno, in varie parti del Paese, accompagnato il gioco. Mi sembra evidente che la situazione è inquietante. Qualche giorno fa ho scritto di come l'assassinio di un poliziotto in occasione della partita Catania-Palermo sia non solo un fatto di violenza teppistica, ma uno dei tanti fenomeni di violenza divenuta condizione di vite che non sanno trovare altri «valori» cui ispirarsi, scomparsi i freni inibitori che sono il limite della normalità (una parola che deriva da norma). Di fronte a tanto qual è il compito di chi ritiene di avere una funzione magistrale da svolgere, o, in ogni ca­so, occupa posizioni in grado di fornire esempi, ammonimenti, incitamenti? E facile rispondere, almeno credo: condannare la violenza, spiegare da dove deriva, che cosa bisogna fare per vincerla nell'interesse di tutti, anche dei violenti. Di certo questo compito tocca ai sacerdoti e, specialmente, ai vescovi, che aspirano a un ruolo carismatico. Ebbene, recentemente la stampa ha dato notizia delle omelie di due vescovi, quali, in occasio­ne delle esequie del poliziotto, assassinato a Catania, hanno ritenuto di dover parlare piuttosto di Sant'Agata, del suo martirio e della sua festa commemorativa. Di tanto in tanto, dentro siffatto discorso, hanno ricordato l'agente ucciso. Qualche giornale, insospettabile per rigore e serietà, ha contrapposto ai discorsi d'occasione dei vescovi le parole semplici e commosse - che tutti abbiamo ascoltato in tv - della vedova e della giovanissima figlia dell'agente assassinato. In quelle semplici, scarne, ingenue parole di dolore era davvero riassunto il valore universale delle virtù cristiane della carità e della pietà, che, aimhé, i due vescovi non hanno saputo esprimere. Sì, perché come ci ha insegnato don Giuseppe De Luca, pietà significa amore di Dio per gli uo­mini e degli uomini per Dio, perciò, transitivamente, amore tra gli uomini.

Che voglio dire? Forse condannare i vescovi? Proprio no. Non è il mio compito e mi importa davvero poco che cosa pensano, che cosa li ispira. Piuttosto ne ri­cavo una drammatica conferma .della mia preoccupazione circa la crisi dei nostri tempi. Ormai è sempre più raro trovare consapevolezza di questa crisi, che riguarda categorie epistemologiche, concetti etici, valori comportamentali. Purtroppo siamo tutti, e specialmente gli esponenti dei corpi organizzati, chiusi in una autorefenzialità, che è la faccia ottusa della globalizzazione intesa come massificazione. Non più uomini, ognuno col proprio volto che significa la propria responsabilità, ma voci senza vol­ti, urla indistinte nella massa. Anche la Chiesa di Roma non fa eccezioni, preoccupata com'è sempre di più della difesa dei propri dogmi, chiusa in difesa, spaurita e perciò spinta all'attacco irragionevole. Sempre più opposta ai bisogni della nuova società, che vanno compresi per essere governati. Questa Chiesa non sa che pronunciare condanne e certezze, del tipo di ritenere l'embrione come vita sempre, come persona da subito, anche quando è un ammasso gelatinoso di cellule. In tal modo si tronca ogni dubbio scientifico, ogni problematicità della ricerca, ogni slancio per nuova vita. Questa Chiesa difende una idea di famiglia e di màtrimonio che non esistono più, trasformando la sacertà del vincolo matrimoniale in un contratto indissolubile per il solo fatto di essere stato una volta contratto Di fronte alla regolamentazione dei diritti di convivenza, questa Chiesa non sa vedere neppure il carattere cautelativo di una dichiarazione anagrafica che intenda regolare i diritti fonda­mentali della persona, limitan­do la indiscriminata estensione degli effetti di una convivenza non regolata. Ma è inutile proseguire dinanzi alla imprudente evocazione dei criteri del Papa-re, che la storia ha condannato e che non c'è riflessione di teo­logo che sia in grado di rivitalizzare.

Una drammatica consapevolezza di decadenza sembra pensare di trovare sostegno nella rivendicazione di un potere mondano, che toglie al pontefice la grandezza del manzoniano «re delle preci», ossia del pastore di una Chiesa universale perché capace di intendere e interpretare la forza di una umanità non più disposta a chiudersi nel fideismo, che è l'anticamera del fondamentalismo intollerante, ossia di qualcosa che è incompatibile col cristianesimo, a condizione che questo non sia un assoluto chiuso in sé ma il principio della pietà, della carità, dell'amicizia, della solidarietà. I nostri governanti, a cominciare dal presidente della Repubblica non possono e non devono tollerare lo spudorato tentativo di umiliare il Parlamento italiano, dettandogli le regole di comportamento e i limiti di azione, caso mai fidando su una destra becera e miscredente, qual è quella che attualmente occupa una parte delle nostre aule parlamentari. Non può e non deve essere tollerata la violazione tracotante dei patti concordatari e della Costituzione repubblicana, fino a essere di­sposti alla denuncia di un accor­do che uno dei contraenti viola lampantemente, aggrappandosi a meschini e miserevoli sotterfugi, che non esitano a scambiare con la responsabilità degli inse­gnamenti dottrinali. Dinanzi a questa Chiesa retrogada e ottusa, la Chiesa del Cristo non sta nell'omelia di Vescovi inneggianti al feticismo devozionisti­co della religiosità popolare, pagana e barbara.

La Chiesa del Cristo sta nell'immagine di un bambino, che, incerto e impaurito, guarda la bara del padre ucciso e chiede che qualcuno lo aiuti a capire il prezzo della violenza, da sconfiggere con la forza dell'amore. Al laico resta la forza della convinzione enunciata dal filosofo che seppe dire che «se non si esi pio non si può davvero essere saggio». E saggia non è la Chiesa di Papa Ratzinger.

 

FULVIO TESSITORE     L’Unità  17/2/2007