Quando la Chiesa e
gli uomini si confrontano con la colpa
«Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato». Queste
parole, seconde solo al
saluto del celebrante e alla relativa risposta, si trovano all´inizio della
messa cattolica. La liturgia in
questo modo fa sì che ogni fedele percepisca se stesso anzitutto come peccatore,
anzi, come uno che
ha "molto" peccato. Le occasioni nella vita del resto non mancano, sono
"pensieri, parole, opere e
omissioni", e più ci si avvicina alla luminosa sorgente del bene, più si
percepisce il male che
opprime la coscienza. Forse per questo Søren Kierkegaard, dando voce a una
tradizione millenaria,
scriveva nell´Esercizio del cristianesimo del 1850 che «l´unica porta
d´ingresso al cristianesimo è la
coscienza del peccato", non senza aggiungere di suo che lo scrupolo è «una
categoria
eminentemente cristiana».
Io non sono d´accordo con questa impostazione, detta
tecnicamente
amartiocentrismo (amartía è l´equivalente greco di peccato), ma non posso
fare a meno di notare
che essa ha avuto e continua ad avere un largo seguito sia nel cattolicesimo sia
nel protestantesimo
dove, ben prima di Kierkegaard, Lutero insegnava "pecca fortiter sed crede
fortius" (pecca forte, ma
più forte credi) legando all´esperienza del peccato lo stesso atto di fede.
Contro questo cristianesimo
amartiocentrico, per lui l´unico possibile, Nietzsche intraprese un titanico
combattimento
speculativo che lo portò a una filosofia senza morale, al sogno di poter entrare
in un territorio "al di
là del bene e del male" (il saggio omonimo è del 1886). Mentre sono convinto
che la pars
construens della filosofia nietzschiana sia insostenibile perché un tale
territorio vergine privo di
dimensione etica non esiste, sono altrettanto convinto che la sua pars
destruens abbia svolto e debba
ancora svolgere un´azione salutare con l´abbattere ancestrali e dannosi
complessi di colpa.
Il principale merito di Dietrich Bonhoeffer e della teologia
preannunciata nelle sue lettere dal carcere
nazista pubblicate col titolo Resistenza e resa consiste proprio nella
ricezione della ribellione
nietzschiana contro l´inquietante senso del peccato e della colpa (mea culpa,
mea culpa, mea
maxima culpa) inteso quale condizione preliminare della fede cristiana.
Senza Nietzsche,
Bonhoeffer non avrebbe mai sostenuto, soprattutto lui che era luterano, che «Dio
non è un
tappabuchi, non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre
possibilità, ma al centro
della vita, nella vita, nella salute e nella forza».
Ciononostante l´esperienza del peccato permane, perché la terra promessa da
Nietzsche di una vita
al di là del bene e del male, non esiste. Per noi uomini tutto, qui e ora, è "al
di qua" del bene e del
male. C´è una politica buona e una politica che non lo è. C´è un´economia buona,
e una che non lo
è. C´è una cronaca buona, e una che non lo è. A partire dalle più elementari
esperienze della vita
quali l´aria che respiriamo, l´acqua che beviamo e il cibo che mangiamo, fino
alle più elevate
produzioni della mente, tutto ciò che procede e ritorna alla vita dell´uomo è
sempre
invalicabilmente "al di qua" del bene e del male. La libertà dell´uomo esiste,
ed esistendo opera, e
quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione del vivere. Volenti o
nolenti, siamo rimandati
all´esperienza del peccato.
Il concetto di peccato infatti è sorto nella coscienza etica e
spirituale di tutta l´umanità in seguito
allo sforzo della mente di catalogare le azioni che contribuiscono alla
diminuzione del grado di
ordine (armonia, salute, bene) in relazione agli altri e a se stessi. Si
spiegano così gli elenchi dei
peccati e i cataloghi dei vizi che il pensiero ha stilato, ragionando ora
secondo l´oggetto come
avviene nel caso dei peccati (omicidio, furto, adulterio…), ora secondo la
disposizione soggettiva
come nel caso dei vizi (ira, gola, lussuria…).
Si aprirebbe a questo punto una questione senza fondo: perché, così
spesso, l´uomo è attratto non
dal bene ma dal male, non dall´ordine ma dal disordine? Fin dalla notte dei
tempi questo
interrogativo incombe sul pensiero. La dottrina cattolica vi risponde
mediante il dogma del peccato
originale, che ha il merito di segnalare il problema ma il demerito ben maggiore
di presentare una
soluzione teoreticamente insufficiente e moralmente indegna. Ha scritto Kant al
riguardo nel suo
mirabile saggio sul male radicale nella natura umana del 1792: «Qualunque
possa essere l´origine
del male morale nell´uomo, non c´è dubbio che… il modo più inopportuno è quello
di
rappresentarci il male come giunto fino a noi per eredità dei primi progenitori».
Rimane da chiedersi come la coscienza contemporanea percepisca
oggi il peccato, e come possano
anche i non credenti arrivare lo stesso a dire "confesso a voi fratelli che ho
molto peccato". Penso
infatti che il ritrovarsi inadempienti di fronte all´imperativo etico sia
inevitabile in chiunque
conosca se stesso e che la percezione delle proprie colpe abbia precise
implicazioni sociali. Penso
altresì, però, che la dimensione giuridica che ritrascrive il peccato mediante
il concetto di reato non
sia sufficiente a esprimere tutta la densità umana del fenomeno. Come la
legalità è solo una pallida
immagine della giustizia, così lo è il concetto di reato rispetto alla tensione
che manifesta la
coscienza del peccato. Forse chi ha espresso al meglio questa dialettica
è stato Dostoevskij in
Delitto e castigo, il romanzo che nel 1866 inaugura il ciclo narrativo
che l´ha reso immortale.
Vito Mancuso la Repubblica 20 maggio 2010