Quando la Chiesa detta
legge allo Stato
Solo una forza religiosa, dice il costituzionalista, può tenere unito il
mondo
Le stesse affermazioni si trovano in molta letteratura anti-liberale
Ma in una struttura fondata sulla libertà tutte le credenze hanno cittadinanza
Ma è vero che le democrazie hanno bisogno della fede per sopravvivere? I
pericoli delle tesi di Böckenförde
«Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può
garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà»:
così il celebre dictum del costituzionalista E.W. Böckenförde, assurto a
manifesto ideologico di quanti sostengono l´incapacità delle democrazie liberali
di sopravvivere a se stesse e la necessità della religione come loro
presupposto. Attira la nostra attenzione l´uso del verbo "potere": "presupposti
che non può garantire". Sono possibili due comprensioni: non può perché non ci
riesce de facto, o perché non gli è lecito de iure. Nel primo senso, la
proposizione è descrittiva; nel secondo, normativa. La differenza è notevole,
anche rispetto alle conseguenze.
L´accento cade innanzitutto sull´impossibilità de facto e da cui deriva un fosco
vaticinio. Il focus sta negli aggettivi liberale e secolarizzato. Lì si
troverebbe la ragione del deficit delle forze che "tengono unito il mondo" e
"creano vincolo" sociale, senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato
sul niente. Ecco un crescendo di interrogativi retorici: «Di che cosa vive lo
Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che
la forza vincolante proveniente dalle religione non è e non può più essere
essenziale per lui? È possibile fondare e conservare l´eticità in maniera tutta
terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"? E se ciò non fosse
possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle
aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini?».
L´accenno alle "aspettative eudemonistiche", cioè alle aspettative di "bella
vita", getta una luce particolare sul significato catastrofistico di queste
domande.
Uno Stato basato sulla libertà, che non possa confidare in forze vincolanti
interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria legittimità,
ad accrescere illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi da
sé in una spirale mortale di aspettative d´ogni genere che, oltre un certo
limite, non potrà più mantenere.
Non sono affermazioni originali. In una forma o in un´altra, le troviamo nella
letteratura anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria,
dall´Ottocento a oggi. Ora, però, l´impotenza dello Stato basato sulla libertà,
come impotenza de facto, è ricondotta anche all´impossibilità de iure. Questo
Stato non può cercare di rinsaldare l´ethos di cui ha bisogno percorrendo la
strada a ritroso verso la res publica christiana. Non può farlo perché così
rinnegherebbe se stesso, la libertà, la laicità, la tolleranza, l´uguaglianza,
il pluralismo: tutti principi dati per acquisiti. Dunque, l´impotenza di cui
parliamo comprende entrambi i significati del "non può", l´esistenziale e il
normativo. Le premesse di cui abbiamo bisogno devono prendere corpo non a opera
dello Stato ma in seno alla società. Sono i cittadini, e tra questi ovviamente
anche i cittadini cristiani in nome della loro fede, a dover assumere l´habitus
etico necessario alla sopravvivenza dello Stato basato sulla libertà. Sono i
cittadini a potere e dovere garantire gli impulsi e le forze di unificazione
interiori di cui lo Stato ha bisogno; non può (in entrambi i sensi) essere lo
Stato poiché, nelle sue mani, la religione diventerebbe instrumentum regni.
La ricezione di queste posizioni, attraverso una lettura semplificante del
dictum sopra ricordato, non è stata però, prevalentemente, questa. Parlerei
perfino di strumentalizzazione, se in quelle non ci fosse un certo margine di
ambiguità. La ricezione è avvenuta nel senso che lo Stato basato sulla libertà –
in quanto Stato, non in quanto società - non può di fatto, con le sue sole
forze, darsi i propri presupposti, ma che può, sempre in quanto Stato,
legittimamente cercarli altrove, nel cristianesimo. Questa diversa
interpretazione del "non può" è rappresentata in modo efficace dalle parole,
scritte dal cardinale Joseph Ratzinger in un saggio del 1984: dalla tesi che
l´attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta e perciò
vive di presupposti «che esso stesso non può garantire» deriverebbe che esso ha
bisogno di forze dall´esterno che lo sostengano. Le uniche forze disponibili
sarebbero quelle del cristianesimo e con queste lo Stato potrebbe e dovrebbe
stringere alleanza, un´alleanza, per sovrappiù, che assume il colore di una
certa sottomissione: chi accetta che un altro getti le basi che garantiscono la
sue esistenza non deve accettare anche la dipendenza da questo altro? La Chiesa
pone la sua candidatura, in quanto afferma la propria "rilevanza pubblica
assoluta" e rifiuta di farsi confinare nella dimensione privata dalle coscienza.
Lo stesso Ratzinger, però, mette in luce la difficoltà: «ci troviamo di fronte a
un´aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella
di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato l´accetta, smette di essere
pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono sé stessi». Poiché
tuttavia "nell´attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico
è scarso" – così prosegue Ratzinger – "la pretesa di riconoscimento pubblico
della fede [cattolica] non può compromettere il pluralismo e la tolleranza
religiosa dello Stato. Da qui (dal pluralismo e dalla tolleranza) non si
potrebbe dedurre la piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve
riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione
cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso
semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio luogo storico". Onde,
conseguentemente, la richiesta di uno status differenziato, a favore della
religione cristiano-cattolica e della Chiesa, richiesta che inizia riguardando
la questione dei simboli, ma si estende facilmente al sostegno delle scuole
cattoliche, all´insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, al finanziamento
agevolato delle sue attività, per finire a una sorta di diritto d´ultima parola
nelle questioni legislative che hanno rilievo per l´identità cristiana dello
Stato.
Böckenförde dice di prendere le distanze. A me, sinceramente, non pare. L´ordine
pubblico di una situazione costituzionale pluralista – dice - non può
appiattirsi sull´ethos di una sola religione: tutte le religioni e confessioni
devono essere incluse nel diritto di avere e proclamare, in pubblico e in
privato, la propria fede. Ma, aggiunge, questo non deve comportare la pretesa di
un livellamento dell´impronta religiosa che assicura l´identità dello Stato.
"Livellamento" è una parola che suona male e, soprattutto, può significare una
cosa che nessuno richiede: un´azione di forza che mai, in una società libera,
sarebbe ammissibile. Se però sostituiamo livellamento con uguaglianza, ci si
accorge che questo è per l´appunto ciò di cui abbiamo bisogno affinché l´ordine
pubblico si apra al pluralismo. Nello Stato secolare fondato sulla libertà,
tutte le fedi, tutte le religioni, tutte le credenze anche non religiose o
antireligiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza ed è questo che
costituisce "l´impronta" di questo tipo di Stato. Rispetto a questa impronta, è
contraddittoria e pericolosa l´affermazione di Böckenförde, che ha fatto su di
me molta e negativa impressione, che «le minoranze religiose debbano vivere
nella diaspora». Dire così significa negare l´esistenza di un comune e unico
vincolo di cittadinanza e consentire status sociali, giuridici e politici
differenziati, a favore dei membri della religione di maggioranza, secondo
esperienze del passato di infelice memoria. Come si possa sostenere questo
genere di posizioni e, al tempo stesso, non contraddire l´esigenza di "assoluta
neutralità" dello Stato, esigenza che costituisce certamente il contenuto minimo
necessario di qualsiasi concezione della laicità, e come in tal modo non si
neghino i fondamenti dello Stato secolare basato sulla libertà è per me – lo
confesso – un mistero.
Anche una seconda proposizione merita di essere indagata: «Fino a che punto i
popoli uniti in stati possono vivere sulla base della sola garanzia della
libertà, senza avere un legame unificante che preceda tale libertà?»
Qui, l´attenzione cade su quel "precedere". Se la garanzia precede la libertà,
non può che essere un legame che viene da fuori, non dall´autonomia dei singoli:
un legame in qualche modo indotto, se non imposto, per via di autorità. La
Chiesa, ammesso ch´essa possegga la riserva delle risorse etiche, potrebbe
allora legittimamente chiedere che le si assicurino i mezzi per farle valere
vincolativamente. Questo ci dice quel "precedere". A me pare di vedere in
questa offerta di collaborazione qualcosa di oltraggioso nei confronti della
religione di Gesù di Nazareth, perché mi sovviene di Giovanni Botero, il teorico
secentesco della ragion di Stato, dello Stato della Controriforma: «Tra tutte le
leggi non ve n´è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa
sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de´ sudditi, dove conviene,
ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli
affetti ancora, e i pensieri». «Questa è la ragion di Stato, fratel mio, obedir
alla Chiesa cattolica», scriveva un discepolo di Botero, Giulio Cesare Capaccio,
nel 1634.
Non risulta facilmente comprensibile come questa "precedenza" del legame
unificante si accordi con l´altra affermazione di Böckenförde, questa sì
pienamente conforme all´idea dello Stato secolare basato sulla libertà, che «la
religione si dispiega […] nella società civile e nel suo ordinamento» e che da
lì, dalla società, potrebbe influenzare lo Stato, quale «organizzazione
vincolante dell´umana convivenza». Se così fosse, non ci sarebbe infatti nessun
bisogno di postulare un legame unificante che "preceda la libertà": esso si
formerebbe infatti, precisamente, nella libertà.
È in questa "precedenza" che si annida la questione. Le fedi religiose non sono
affatto un problema per la democrazia liberale – l´odierno Stato secolare basato
sulla libertà -, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella
quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della
società civile. Il problema non sono i credenti ma è la Chiesa, quando chiede e
ottiene alleanza con lo Stato, per offrirgli "garanzie"; simmetricamente, il
problema è anche lo Stato, quando offre alla Chiesa questa alleanza interessata.
Noi, in Italia, conosciamo bene questo rapporto di reciproco sostegno e lo
conosciamo nella forma più esplicita, quella del Cattolicesimo "religione di
Stato", esistente fino a subito prima della Costituzione repubblicana, dallo
Statuto Albertino fino al fascismo.
L´idea di un legame sostanziale unificante precedente la libertà corrisponde a
un´idea di democrazia protetta, a sovranità limitata. E infatti, nelle
discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante contenuto etico, sui quali
la Chiesa come tale chiede la parola, la loro dimensione costituzionale è
totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina delle relazioni familiari
e dei legami interpersonali, tra persone di sessi diversi o anche del medesimo
sesso; sui limiti della ricerca e della sperimentazione scientifica, in rapporto
alla dignità dell´essere umano; sull´autodeterminazione delle persone sottoposte
a trattamenti medici forzati, ecc., la Costituzione e la giurisprudenza della
Corte costituzionale contengono indicazioni certo non trascurabili, per chi
pensa che i fondamenti etici della convivenza siano da ricercare nella libertà;
invece, essi sono ignorati da parte di chi ragiona "precedendo" l´esercizio
della libertà che ha portato alla formulazione dei principi della Costituzione.
Così come, più in generale, sono ignorati sia il principio di laicità sia i suoi
contenuti, quali determinati dalla giurisprudenza costituzionale. Le divagazione
su "nuove", "sane" ecc. laicità che provengono numerose da ambienti
ecclesiastici e si riversano nelle audizioni parlamentari, tutte le volte in cui
si discute di politica ecclesiastica, sembrano non conoscere o, almeno, non
tenere in conto i vincoli costituzionali, come il principio di equidistanza e il
divieto, per lo Stato, di ricorrere a obbligazioni religiose per rafforzare le
obbligazioni civili e, al contrario, il divieto, per la Chiesa, di ricorrere a
mezzi statali per rafforzare i vincoli religiosi. La proposta del cristianesimo
come legame unificante precedente contraddice precisamente questa separazione.
Lo Stato secolare basato sulla libertà deve dunque, per così dire,
reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé,
senza delegarle ad altri. E questo, naturalmente, è un problema che non
può essere trascurato. Ma è un problema sociale, non politico o statale. Si
dirà: il legame tra la religione e la politica e quindi lo Stato è un legame
profondo, tutt´altro che accidentale. Lo si vede all´opera dalla preistoria fino
quasi ai nostri giorni. E anche oggi, può apparire che lo Stato secolarizzato
dell´Europa occidentale, rispetto al resto del mondo, sia soltanto una
deviazione, un Sonderweg, secondo l´espressione di Jürgen Habermas, destinato in
breve a rientrare. E perfino il più radicale movimento politico fondato
sull´immanenza, la Rivoluzione francese, ha sentito l´esigenza di divinizzare il
suo regime. Invece, le società secolari odierne basate sulla libertà pensano di
farne a meno, per fondare i propri Stati. Ma la rinuncia a usare un Dio per i
propri fini politici non è forse, precisamente, la grande sfida ch´esse hanno
accettato "per amore della libertà"?