Quando l’uomo ebbe coscienza di sé
Un enigma fra teologia e filosofia
Nel peccato originale la coscienza dell’uomo


Quale fu la ragione che scatenò la cacciata di Adamo ed Eva dai Giardini dell´Eden? Furono la consapevolezza della nostra umanità e il possesso del pensiero, che ci poneva fuori dall´animalità
Dio ci ha concesso il libero arbitrio ma la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e scegliere?
Gli animali e i bambini non peccano, sono forme pure che obbediscono a istinti, pulsioni e stimoli
È il marchio che ci distingue dal resto degli esseri viventi: noi siamo la sola specie che ha perso l´innocenza


Il Serpente invogliò Eva a cogliere il frutto dell´albero proibito (quello della conoscenza); la donna lo porse ad Adamo e insieme lo mangiarono; Dio vide la loro trasgressione e mandò i suoi Arcangeli a scacciarli dai giardini dell´Eden dove fino ad allora avevano trascorso beatamente tra piante, fiori e animali la loro innocente esistenza.
Tra le innumerevoli pitture che ritraggono questa scena drammatica all´inizio della storia della nostra specie, la più intensa è quella dipinta da Masaccio nella chiesa del Carmine a Firenze, con le due creature derelitte e piangenti, condannate alla fatica, al dolore, alla fragilità della carne peccatrice e, soprattutto, alla coscienza macchiata dal peccato. Dal peccato originale che soltanto la discesa in terra del Figlio avrebbe riscattato – non cancellato – e che tuttora grava su di noi se il sacrificio del Cristo non continuerà ad assumerlo su di sé fino alla fine dei secoli e al giorno del Giudizio.
Così la Genesi racconta. Sono state date molteplici interpretazioni a quest´affascinante favola sacra che costituisce il fondamento delle grandi religioni monoteiste e così la specie umana si distingue da tutte le altre forme viventi per il sigillo di un peccato originale che ne segna il percorso, illuminato dalla speranza della salvezza e dalle opere che ad essa conducono con l´assistenza della grazia divina. La trascendenza di Dio ha nel peccato originale la sua prova, la vita dell´al-di-là la sua spiegazione, la morte la sua sconfitta.
Il racconto della «cacciata» è pieno di incongruenze, tra le quali giganteggia l´ingiustizia di Dio. Perché i nati prima della discesa in terra del Figlio devono essere esclusi dalla grazia e dalla salvezza? Perché quelli nati in luoghi del pianeta dove il messaggio evangelico non è mai arrivato patiscono egualmente questa esclusione?

Dov´è la bilancia della giustizia? Dov´è la pietà e la carità? Ma anche queste obiezioni hanno le loro risposte: le creature non hanno alcun titolo per disputare con Dio sui criteri che ispirano la sua condotta e le sue decisioni. Soprattutto non hanno alcun titolo per applicare all´Onnipotente i loro propri criteri di giustizia. È la risposta terribile che il Signore di tutte le cose create dà a Giobbe, che ha osato giudicarlo alla stregua del proprio metro di giudizio. E Giobbe ne resta infatti annichilito, schiacciato nella polvere con la quale fu creato.
Malgrado le incongruenze del resoconto biblico, il peccato originale grandeggia al centro della storia dell´uomo, ne costituisce il marchio distintivo sia per chi è animato dalla fede sia per chi non ne ha affatto.
Io non sono credente e il mio cielo è vuoto di presenze trascendenti. Eppure anch´io sono fermamente convinto che il peccato originale sia il marchio che ci distingue dal resto dei viventi che ci circondano. Noi siamo infatti la sola specie che ha perso l´innocenza. Noi siamo tutti colpevoli, battezzati o non battezzati, credenti o non credenti. Il peccato è la nostra condanna. Anzi il nostro vanto.
Ma qual è il peccato? Questa è la questione da porre e sulla quale ora ragionare.

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Il peccato nasce insieme alla soggettività. Nasce insieme all´Io. Il peccato nasce insieme al pensiero capace di pensare se stesso e di pensare l´Essere. Il disastro è il pensiero che ci pone, almeno con una gamba ed un braccio, fuori dall´animalità.
Gli animali, e i bambini, non peccano. Sono forme pure che obbediscono a istinti e pulsioni. Percepiscono stimoli di piacere e di dolore e reagiscono guidati da mappe cerebrali arcaiche, midollari, quelle che i primi filosofi e i primi teologi chiamavano «anima sensitiva» concentrando in un sostantivo e in un aggettivo il complesso delle reazioni delle fasce nervose e muscolari.
Gli animali e i bambini non hanno mangiato o non hanno mangiato ancora i frutti dell´albero della conoscenza, perciò sono innocenti, quali che siano le loro azioni. Non sono liberi poiché la libertà senza Dio è un concetto vuoto, una parola priva di senso. Non sanno che cosa sia la speranza, ignorano il tempo, ignorano la morte. Non conoscono Dio.
La grande architettura teologica del cristianesimo ha a lungo dibattuto l´atteggiamento da tenere nei confronti di questa sterminata moltitudine di anime sensitive che Dio ha creato senza far loro il dono della coscienza. Non sapeva dove metterle, quelle anime sensitive. Le carcasse dei loro corpi era facile farle ritornare alla terra («in pulvere reverteris») ma le anime? Le anime imperfette? Declinate soltanto all´accusativo e mai alla prima persona del verbo? Dottrina e tradizione confinarono queste anime nel limbo, dove sarebbero andate anche le anime «perfette» che, per circostanze accidentali, non avevano ricevuto il battesimo.
Su queste ultime si è aperto un dibattito recente in seno alla Chiesa, che non ha ancora trovato una sua definitiva conclusione. La tendenza fin qui prevalente sembra portare verso l´abolizione del limbo per quanto riguarda le anime prive di battesimo. È possibile che per esse si effettui una sorta di trasloco dal limbo alla fascia inferiore del Purgatorio, sebbene lo stesso Purgatorio si trovi in qualche modo «sub iudice». Si tratta di concessioni che la Chiesa fa alla modernità con un´idea assai mediocre e bislacca della modernità.
Per quanto riguarda invece le anime sensitive dei bambini il problema è più complesso e diventa più complesso ancora se si risale ai feti e addirittura agli embrioni. Feti ed embrioni contengono capacità biologicamente evolutive. In potenza si tratta di persone. In potenza, ma non in atto.
Possono ricevere un sacramento? Possono essere collocate nel limbo? Possono traslocare in Purgatorio? Per un bambino non ancora evoluto a livello della soggettività e quindi ancora pienamente innocente, un trasloco dal limbo al Purgatorio sarebbe abbastanza paradossale secondo la logica cristiana; dovrebbe infatti scontare una pena senza aver commesso alcun peccato. E non parliamo dei feti e degli embrioni.
Concederete, cari lettori, che questo complesso di domande, per altro assolutamente logiche, configura un quadro grottesco o almeno bizzarro, per certi aspetti perfino comico, che dimostra dove possa arrivare la teologia quando si perda in architetture di penalità e benefici, di perdizione e di salvezza, per non parlare del sistema delle indulgenze così gelosamente amministrato per secoli dalla Gerarchia e tuttora operante, che alimentò largamente l´erario pontificio e provocò lo scisma più drammatico della Chiesa di Occidente.

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Lasciamo da parte questa favolistica (per altro pertinente al tema) e torniamo al peccato originale. Da quanto fin qui abbiamo svolto risulta che esso coglie in pieno la condizione umana.
Abbiamo visto che il peccato nasce nel momento in cui la mente dell´uomo ne elabora il concetto. E lo elabora gradualmente, insieme ad un gruppo di altri concetti strettamente connessi tra loro: Dio, l´Essere, la Morte, il Tempo, il Destino, il Caso. La Natura. Gli Altri. Insomma la Metafisica. E insieme alla Metafisica l´Etica. La Conoscenza. Il pensiero astratto. La Filosofia nel suo complesso sistemico. Senza dimenticare che la mente fa pur sempre parte del corpo o meglio è una funzione del corpo e di un suo organo particolare: il cervello.
Dunque il peccato è cosa nostra, nasce dalla nostra umanità. Non può nascere in nessun altro cervello che non abbia elaborato l´Io e la soggettività. Il peccato originale consiste nella soggettività che può anche esprimersi con la parola «responsabilità». Il soggetto e la sua coscienza sono responsabili. Verso gli altri e principalmente verso se stessi. La responsabilità implica un giudizio di congruenza.
La persona responsabile cessa, nel momento stesso in cui acquista questa sua condizione, di essere innocente per definizione. Esce dal cosiddetto stato di natura dove tutte le forme sono innocenti ed entra nello stato civile dove convive con gli altri, si confronta con gli altri. È oggettivamente responsabile degli altri come gli altri lo sono di lui. È colpevole tutte le volte in cui tradisce quella responsabilità e torna ad essere innocente tutte le volte in cui se l´assume.
Questo tuttavia è un genere particolare di innocenza, un´innocenza limitata e sempre a rischio. Resta il peccato originale di essere così come siamo, cioè soggettivi e declinati al nominativo, alla prima persona singolare del verbo. Nominati Io. Questo è il peccato originale. Nostra condanna e nostro vanto.

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Siamo anche liberi? Il fatto di essere muniti di coscienza e di avere acquistato la capacità e il bisogno di conoscenza ci affranca dalla coazione degli istinti?
Dio - secondo uno dei pilastri della fede cristiana - ci ha concesso il libero arbitrio che è l´altra faccia della responsabilità. Secondo questa tesi noi possiamo liberamente scegliere tra il Bene e il Male e siamo responsabili di queste scelte di fronte a un Dio trascendente che è al tempo stesso giudice e misericordioso. Giudica il peccato, accetta il pentimento.
Dunque siamo liberi, almeno stando all´insegnamento biblico ed evangelico. Ma quell´insegnamento ha tenuto presente la figura psichica dell´Io e la sua razionale capacità di scelta tra Bene e Male? E di quale Bene e Male si parla? Il tema della libertà pone insomma un gruppo di questioni estremamente intricate che culminano in una domanda che tutte le riassume: la specie umana è in grado di distinguere il Bene dal Male e di scegliere con libero giudizio?
Abbiamo già visto che questo problema non si pone per nessuna delle altre specie viventi che, mancando di soggettività, sono animate da istinti primari e ripetitivi. Non è così per l´uomo, ma è pur vero che anche l´uomo è animato da istinti. Essi provengono dalla regione dell´inconscio, quella che è stata definita la regione del sé o dell´«es» per distinguerla dall´io. Distinzione schematica, utile come strumento conoscitivo nelle scienze che studiano la psiche ma insufficiente a fornire una descrizione adeguata dei processi che avvengono all´interno dell´individuo.
L´io non è una figura psichica separata dall´«es»; in un individuo nulla è separato e tutto è interconnesso e interagente. Gli istinti e le pulsioni che lambiscono l´io, spesso lo invadono piegandolo ai loro bisogni e al «conatus vivendi», cioè allo sforzo di vivere, anzi di sopravvivere, che costituisce l´istinto primario di tutto il mondo dei viventi e di ogni individuo che ne fa parte: alberi, animali, uomini.
Si instaura dunque una dinamica continua tra istinti, pulsioni, intelletto, della quale la coscienza - cioè la consapevolezza di sé - rappresenta il luogo di mediazione. Più vigile è la coscienza più aumenta la probabilità che l´intelletto razionale tenga a freno gli istinti e ne selezioni la qualità. Scelga quali siano utili alla sopravvivenza e quali siano invece trasgressivi e distruttivi.
La conoscenza è guidata da un duplice richiamo: la sopravvivenza dell´individuo e quella della specie, l´egolatria e la solidarietà. I due richiami sono spesso contraddittori ed è lì che si determina la scelta, è lì in quella scelta, che l´individuo decide. La dinamica ininterrotta costituisce la trama di ciascun vissuto.
Possiamo definire Bene il momento della solidarietà e Male il momento dell´egoismo, anche se si tratta di definizioni molto azzardate.
Una sola cosa è certa: questi processi avvengono in presenza del nostro peccato originale che, lo ripeto ancora una volta, consiste nella soggettività, nel pensiero che può pensare se stesso, nostro vanto e nostra condanna. Orgoglio della nostra autonomia e rimpianto della perduta innocenza.

Eugenio Scalfari     Repubblica 11.3.08