Quando il Papa mi
delude
intervista a Hans Küng a cura dei Giancarlo Bosetti
Fu Hans Küng, il teologo svizzero, lui, il grande critico della visione
curiale-romana della Chiesa a
mettere Joseph Ratzinger su una cattedra-chiave per la sua carriera, quella di
teologia dogmatica di
Tubinga. «Si sono stato io a proporlo unico loco (candidatura secca, senza le
«terne» consuete dei
concorsi accademici) per la cattedra parallela alla mia, perché era il più
qualificato in Germania spiega
- e volevo uno forte che potesse collaborare con me. E infatti abbiamo
collaborato. Per tre
anni». L'intellettuale e religioso, ottantenne, conosciuto in tutto il mondo per
la sua ispirazione
conciliare, ecumenica, aperta al dialogo con le altre religioni, favorevole a
una procreazione
responsabile, avverso al dogma dell'infallibilità, autore di una importante
trilogia su Ebraismo,
Cristianesimo e Islam, è in Italia per presentare il primo volume della sua
autobiografia La mia
battaglia per la libertà. Memorie.
Indubbiamente lei fece fare al futuro Benedetto XVI un balzo decisivo nella
ascesa gerarchica
perché Tubinga era una posizione di enorme prestigio accademico. Qualcuno
ironizzò subito:
a chiamare professori forti «si rischia».
«Ho chiamato il collega più forte, non il mediocre; professori mediocri chiamano
mediocri,
professori forti chiamano colleghi forti. Ratzinger aveva solo 37 anni nel 1965,
ma che fosse forte è
confermato dalla carriera che poi ha fatto. Negli anni del concilio l'ho
conosciuto come una persona
simpatica. Per tre anni ha funzionato, abbiamo impostato insieme una collana
editoriale, "Ricerche
ecumeniche", poi è andato a Regensburg ed è diventato sempre più conservatore. E
poi prefetto
della Congregazione della dottrina fede».
E dunque non è pentito di quella chiamata unico loco?
«No, però in seguito le nostre vie nella Chiesa sono state totalmente
differenti. Lui ed io
rappresentiamo due modi di essere cattolici, una nel senso della curia romana,
una nel senso del
Concilio Vaticano II. E io non sono solo. Ci sono molti che condividono con me
la convinzione che
la Chiesa abbia bisogno di riforme. Solo una minoranza esigua, per esempio,
condivide la dottrina
ufficiale della Humanae Vitae sulla preclusione a una regolazione responsabile
delle nascite».
Il suo era un carattere destinato al ruolo di ribelle, come capita a tanti?
«No, non era il mio destino. Era semplicemente necessario che io facessi la mia
battaglia. Certo
avevo un forte senso della libertà, che viene dalla mia gioventù in Svizzera,
negli anni segnati, oltre
i confini, dal nazismo e dal fascismo, e che viene dalla cultura della mia
famiglia. Poi anche i sette
anni a Roma, al Collegio Germanico e Ungarico e alla Gregoriana, e poi il
Concilio mi hanno molto
arricchito, anche se portando dei conflitti. Ho vissuto un tempo molto
interessante. Ma non ero un
ribelle, sapevo essere ubbidiente e collaborare con altri; ho sempre avuto
amici, sono radicato nella
comunità cristiana cattolica. Non sono un lupo solitario».
Il conflitto con il «partito romano» della Chiesa attraversa la sua vita. Lei
descrive i metodi di
controllo in modo molto crudo: l'inquisizione e gli inquisitori, terrorismo
spirituale, mobbing,
dossier sui dissidenti, compreso quello su di lei. Per la cronaca (e gli
archivisti) c'è anche il
numero di codice: «399/57i».
«Vero, ma a Roma ho anche avuto molti amici e a Roma ho potuto vivere da vicino
esperienze
straordinarie, seguire il pontificato di Pio XII, assistere e celebrare riti
nella basilica di San Pietro.
Sono un insider della vicenda della Chiesa e non ho nessun risentimento
antiromano. Vero anche
che le esperienze romane mi hanno reso critico verso una concezione del Papato
che è un prodotto
dell'XI secolo. Sono stato un membro leale della Chiesa, leale ma critico».
Le sue memorie raccontano delle delusioni, anche a proposito del «Papa dei
tedeschi», Pio XII.
«Certo all'inizio ci aveva entusiasmati, a noi del Collegio Germanico. Era come
uno di noi, per la
sua cultura, per la sua attenzione alla cultura tedesca, sembrava essere aperto,
poi è diventato
sempre più rigido e sono arrivate le condanne, con la Humani Generis di teologi
come Teilhard de
Chardin, di Yves Congar, moniti, epurazioni nei confronti dei preti operai,
scelte che mi lasciarono
seri dubbi che potessero corrispondere a uno spirito cristiano».
E delusione anche nel caso di Ratzinger. Ci furono momenti in cui lei pensava
con lui e con
Karl Rahner di formare un «club di avanguardia» nella riforma teologica in senso
ecumenico
e aperto all'idea della salvezza anche nelle altre fedi. Ratzinger invece è
l'autore della
Dominus Iesus, l'epistola del 2000, che chiude ogni varco: nulla salus extra
ecclesiam.
«La mia visione è stata ecumenica fin dalla mia tesi di laurea sul grande
teologo svizzero
protestante Karl Barth e fin dai miei primi anni a Roma. Ma non dimentichiamo
che il Concilio ha
affermato una visione ecumenica, ha aperto le porte alla riconciliazione con gli
Ebrei, ha valorizzato
la Bibbia nella liturgia, vi ha introdotto l'uso delle lingue nazionali, ha
riconosciuto il valore del
laicato, ha riformato la devozione popolare: tutto questo era l'aspetto
positivo, ma era solamente una
metà. Ce n'era purtroppo anche un'altra».
«La «settimana nera» nella terza sessione del Concilio, dopo la morte di
Giovanni XXIII, con
Paolo VI. Che cancella buona parte del lavoro cominciato nelle prime due.
«Non solo purtroppo una "settimana nera". C'è stata l'opposizione del nucleo
duro della curia
romana contro il Concilio, per tutto il Concilio, prima, durante e dopo. Hanno
dato battaglia contro
il decreto sulla libertà religiosa, sugli ebrei, contro il rinnovamento della
liturgia e hanno impedito
di portare a compimento le riforme lasciando irrisolte questioni di enorme
importanza: il rifiuto di
un controllo delle nascite affidato alla responsabilità personale, la mancata
soluzione del problema
dei matrimoni misti, la questione del celibato dei sacerdoti, la mancata riforma
della curia romana,
il no al coinvolgimento del clero nelle nomine dei vescovi e dei vescovi
nell'elezione del Papa. La
Dominus Iesus è soltanto uno dei documenti, pubblicato sotto Papa Wojtyla, che
segnano una tappa
verso una restaurazione dello status quo ante Concilium. E' una grande tragedia
per la Chiesa di
oggi che essa non riesca ad avanzare sulla via del Vaticano II e che a Roma
continuino a fare di
tutto per bloccare il rinnovamento, a bloccare il processo unitario ecumenico
con i protestanti e con
gli ortodossi. Solo qualche parola e gesto, ma non un'azione efficace».
Ancora delusioni.
«Ma la mia vita non è solo fatta di delusioni. Ho scritto e sono stato letto e
seguito, sono avanzato
nel mio lavoro scientifico, nelle ricerche ecumeniche, e dal problema dell'unità
dei cristiani a quello
della pace tra le religioni, fino al tema dell'etica mondiale, che è adesso al
centro del mio lavoro.
Non è come per alcuni politici delusi, c'è una linea di lavoro che continua e
che sono convinto
servirà».
Lei si chiede in qualche pagina a proposito di «grandi occasioni» della sua
vita: poteva andare
diversamente?
«Di "grande occasione" della mia vita io parlo a proposito del mio incontro con
Papa Montini. Alla
fine del Concilio mi invitò a entrare al servizio della Chiesa. Gli risposi:
Santità, sono già al servizio
della Chiesa. Lui pensava alla curia, alla gerarchia. Io non ho voluto entrare
in questo sistema. Ma
non per principio. Sarebbe stato diverso se lui avesse fatto una vera riforma
della curia. Entrare
invece dentro il sistema attuale non avrebbe avuto per me alcun senso. Così ho
cercato di rendermi
utile per un'altra via: continuare lo studio, facendo una teologia critica
costruttiva».
Ma certe riforme si possono davvero aiutare da fuori, non si può fare di più da
dentro?
«No, non quando non c'è uno spiraglio di democrazia, non quando vige un regime
come quello di
Luigi XVI. Non avevo intenzione di fare il teologo di corte. Il ruolo non faceva
per me. Il mio
destino sarebbe stato identico a quello di Ratzinger o altri. Ho continuato a
seguire la mia via come
Bing Crosby, nel film Going my way».
Bella la storia del personaggio del film, un cappellano che si rifiuta di
seguire gli ordini del
parroco conservatore. Mi dica sinceramente: ritiene chiusa la storia di questo
pontificato in
senso conservatore?
«Questo Papa ha fatto sbagli seri però si è mostrato anche capace di
correggersi. Gli devo essere
grato perché il suo predecessore non ha mai risposto a nessuna mia lettera, lui
invece mi ha
immediatamente ricevuto nel 2005: una cena e diverse ore di colloquio impegnato.
E' stato un atto
veramente coraggioso. Dunque nonostante molti passi indietro non ho perduto la
speranza che sia
capace di altri atti coraggiosi»
la Repubblica 22 maggio 2008