Quando il corpo diventa una prigione
Il medico di Eluana
A "Leggere per non dimenticare" Carlo Alberto Defanti l´esperto di bioetica
"Il punto dove inizia la morte è in realtà indefinibile Ma lo stesso si può dire
della vita"
Che cos´è la morte? Di esprimersi con competenza su un tema oggi fin troppo, e,
a sproposito, frequentato, è ormai consentito a pochi, fra i quali, a pieno
titolo, Carlo Alberto Defanti, il neurologo noto per aver seguito Eluana Englaro,
ma già notissimo in un campo, come quello della bioetica, di cui è stato uno dei
pionieri in Italia. Già direttore dei reparti neurologici degli Ospedali riuniti
di Bergamo e del Niguarda di Milano, fra i fondatori della Consulta di bioetica,
oggi docente di Bioetica al San Raffaele di Milano, Defanti ha deciso di
raccontare la sua esperienza in un libro che già dal titolo si presenta come
compendio di interrogativi, ben più che di rigide tesi: «Soglie. Medicina e fine
della vita» (oggi a "Leggere per non dimenticare", con l´autore e Adriano
Prosperi, ore 17,30. Biblioteca delle Oblate, via dell´Oriuolo; a seguire «Il
mondo di Sergio», di Mauro Paissan).
Sebbene in realtà una tesi, al fondo, emerga: la morte è una convenzione. Sì, dice, Defanti: la soglia estrema dell´umano è, in realtà, indefinibile. Ma non si può forse dire lo stesso della vita, che della morte è la condizione?
Restare
nell´incertezza, però, se è consentito ai filosofi, non lo è alla medicina, che
ha fini molto pratici come la necessità di stabilire quando una persona è morta
per procedere, per esempio, a un espianto di organi. Da qui, dice il neurologo,
la necessità di trovare della morte, di volta in volta, definizioni socialmente
accettate. Utili per un´epoca più o meno lunga, ma, avverte Defanti,
sostanzialmente transeunti. Da rispettare sempre pronti a modificarle. Non in
quanto relativisti, bensì in nome di quella continua «correzione di rotta» che
il rapporto con la morte, di per sé, impone alla vita.
Professor
Defanti, il suo libro nasce dalla sua esperienza concreta di neurologo, membro
di commissioni per l´accertamento della morte cerebrale. La sua posizione nasce
cioè da una esperienza diretta di chi è chiamato al difficilissimo compito di
decretare il superamento della fatidica soglia?
«Sì, cosa
tecnicamente di routine, ma che mi ha spinto a riflettere a fondo su quella
sfida contro-intuitiva all´immagine di una persona con il cuore che batte, da
definire però "morta". Mi sono reso conto di come la definizione di "morte
cerebrale", proposta nel �68 dalla scuola di Harvard e poi passata quasi
ovunque nella legislazione internazionale, fosse non tanto il risultato di una
scoperta scientifica, ma di una convenzione, che consentiva finalmente di
mettere ordine in un settore fino ad allora del tutto incerto. Con l´avvento
dell´era dei trapianti, dopo quello di Barnard nel �67, i chirurghi
rischiavano infatti l´accusa di omicidio».
D´altra parte, come ricorda nel suo libro, la morte, che pure sembrerebbe qualcosa di assoluto, è sempre stata in realtà qualcosa di incerto e dubbio, vedi il timore delle morti apparenti o i gialli di Edgar Allan Poe.
«Sì, e continua ad esserlo, ma al contrario di un tempo, quando si trattava di limiti dei mezzi di accertamento, oggi i confini della morte saltano causa il nostro pesante intervento tecnico. La morte così è diventata un processo, fatto di tante soglie, una delle quali soltanto, però, va indicata come morte vera e propria».
Ma
cos´è davvero la morte cerebrale, e come è possibile che una convenzione sia
sufficiente a eliminare problemi etici, tanto che nemmeno la Chiesa si oppone
agli espianti?
«La morte cerebrale si dà in presenza di danni gravissimi di tutto il cervello e in assenza di qualunque funzione vegetativa. Che non è, il caso di Eluana Englaro, completamente priva di coscienza, ai confini della morte cerebrale, ma ancora dotata di funzioni vegetative. E di fronte a cui il problema diventa quale sia il senso di una vita puramente biologica in persone che non sanno neppure di esistere. Il suo caso mostra che chi volesse uscire da questo stato, oggi, ha la strada sbarrata».
Maria Cristina Carratù Repubblica Firenze 16.1.09