Quando ci chiamavano clandestini o «musi neri»
Chi rende onore ai ventisette milioni di emigrati italiani: chi ricorda la storia tutta intera, coi suoi
dolori, le sue disperazioni, i suoi lutti, o chi ne ricorda solo un pezzo, «addomesticandola» per
ragioni di bottega? Il tema è tornato a dividere la politica anche ieri, nell’anniversario di una delle
grandi tragedie della nostra storia, quella di Marcinelle. Di qua Giorgio Napolitano e Gianfranco
Fini, a chiedere per gli immigrati un po’ di rispetto. Di là i leghisti. Spintisi con Umberto Bossi a
liquidare il tema facendo di ogni erba un fascio: «Noi andavamo a lavorare, non ad ammazzare la
gente».
«Il ricordo delle generazioni che hanno vissuto l’angoscioso periodo delle migrazioni dalle regioni
più povere dell’Italia», ha scritto il capo dello Stato nel suo messaggio, «deve costituire ulteriore
motivo di riflessione sui temi della piena integrazione degli immigrati». «Il lavoratore merita
rispetto anche se non ha il
in Belgio, «Poi ci si può dividere sulle politiche dell’immigrazione ma è inammissibile che si possa
considerare il lavoratore non come un uomo o una donna che meritano rispetto, ma come
momentaneo supporto di cui si ha necessità».
Di più: «All’epoca gli italiani che lavoravano qui non erano extracomunitari perché la parola non
era ancora stata inventata, ma qualche volta erano considerati diversi, 'musi neri'».
Di più ancora: «Quegli italiani non venivano solo dal Sud ma anche dal Nord Italia, come dimostra
'l’anagrafe' della tragedia di Marcinelle» e sarebbe bene che questa «verità storica» fosse ricordata
dagli «esponenti politici che rappresentano il Nord nel nostro Paese». Non l’avessero mai detto!
Certo, «il lavoratore in quanto uomo o in quanto donna merita sempre rispetto», ha risposto Roberto
Calderoli, «ma col dovuto rispetto va anche processato ed espulso, quando non sia in possesso dei
requisiti necessari». E mentre il senatore leghista Gianvittore Vaccari rispondeva piccato che «noi
eravamo andati a dare un contributo alle singole nazioni, quindi non solo per la mancanza di lavoro
in Italia», Roberto Cota si è spinto più in là, dicendo che «l’introduzione del reato di clandestinità è
la prima forma di rispetto e di chiarezza nei confronti di tutti» e che i nostri emigrati vanno ricordati
«come esempio di chi rispettava le regole del Paese ospitante». Prova provata che, prima di
sottoporre i professori alla prova di dialetto, è indispensabile introdurre nei programmi di scuola la
storia della nostra emigrazione.
Che i nostri nonni e i nostri padri non siano «mai stati clandestini» come si avventurò a sostenere
anche Carlo Sgorlon, è una sciocchezza smentita non solo dalla memoria di quanti hanno vissuto
l’emigrazione, dal nostro soprannome in America («Wop»:
dalle copertine della
tempeste di neve come Angela Vitale che «si era messa in viaggio dalla lontana Sicilia con i suoi sei
bambini», ma da decine di studi italiani e stranieri.
Certo, in alcune fasi storiche e in alcuni paesi la nostra emigrazione è stata «anche» regolare e
concordata con accordi bilaterali, ad esempio, quello con Bruxelles del 1946: «Per ogni scaglione di
1.000 operai italiani che lavoreranno nelle miniere, il Belgio esporterà in Italia: tonn. 2500 mensili
di carbone...».
Tuttavia anche in quegli anni c’erano due correnti parallele. Una di emigranti regolari, l’altra di
clandestini. Che attraversavano le Alpi lungo i sentieri battuti nel 1947 dall’inviato del
Egisto Corradi («passavano centinaia e centinaia di emigranti per notte: una volta ne passarono
mille in poco più di ventiquattr’ore, con nidiate intere di bambini») in condizioni spesso così
disperate che a un certo punto il sindaco di Giaglione, in alta Val di Susa, fu costretto a invocare un
finanziamento supplementare alla prefettura di Torino «non avendo più risorse per dare sepoltura ai
clandestini che morivano nell’impresa disperata di valicare le Alpi».
Gli italiani, oltre ad avere conquistato la stima, la riconoscenza, l’affetto dei Paesi che hanno
pacificamente «invaso», hanno «detenuto a lungo il primato dell’esodo clandestino», ha scritto
Sandro Rinauro, docente alla Statale di Milano, nel libro
seppellito sotto tonnellate di documenti inequivocabili (258 note per il solo capitolo terzo, 262 per il
quarto) tutti i luoghi comuni costruiti intorno alla tesi che «i nostri avevano sempre le carte in
regola». E senza ricordare le esperienze estreme, come i 1.300 italiani morti nella guerra d’Indocina
dopo essere stati in buona parte costretti ad arruolarsi nella Legione Straniera perché sorpresi dalla
gendarmerie all’ingresso clandestino in Francia (come Rosario Caruso detto «Sarino », che passò il
Piccolo San Bernardo con Egisto Corradi tirandosi dietro nella neve una valigia con 35 chili di fichi
secchi) basti rifarsi ai dati ufficiali francesi del ’57: «Degli 80.385 lavoratori permanenti giunti dalla
penisola in quell’anno, 44.852 erano entrati regolarmente e 35 533 furono regolarizzati dopo che
erano riusciti a penetrare impunemente».
Vogliamo rileggere il rapporto del direttore della Manodopera straniera del ministero del Lavoro
parigino, Alfred Rosier, alla fine del 1948? Dei 15.000 italiani presenti nel dipartimento agricolo del
Gers, «il 95%» era «irregolare o clandestino». Quanto ai familiari, erano entrati illegalmente in
Francia addirittura «il 90%». Come all’ 80% erano entrati irregolarmente gli italiani censiti nell’area
di Parigi dall’Institut national d’études démographiques. Di dov’erano? Anche qui ha ragione Fini.
Ce lo ricorda, tra mille altri documenti, una relazione del Comitato di Italia Libera di Nancy
consegnata alla Croce Rossa italiana di Parigi su 47 clandestini rifiutati e non regolarizzati (anche
allora a molti imprenditori facevano comodo i clandestini da sottopagare...) perché deboli di salute.
Venivano in ordine decrescente dalle province di Bergamo, Padova, Udine, Vicenza, Belluno,
Verona, Treviso... Era il 1946.
Ecco, nel giorno in cui entra in vigore una legge che solo pochi anni fa avrebbe colpito centinaia di
migliaia di nostri nonni, padri, fratelli, val la pena di ricordarlo. O come minimo di riflettere su un
punto: un conto è la durezza (sacrosanta) contro i delinquenti e la gestione, anche severa, dei flussi
immigratori e un altro è sparare nel mucchio come ha fatto ieri il segretario della Lega fingendo di
ignorare quanti extracomunitari perbene (che regalano all’Italia, tra parentesi, oltre il 9,2% del Pil)
hanno fatto la fortuna di tanti imprenditori anche leghisti che mai si sognerebbero, come fece tempo
Gian Antonio Stella