Quale etica
converte Tremonti
Pochi sembrano accorgersene: ma la recessione in cui siamo entrati non ridisegna
solo il tessuto
sociale ed economico del Paese; sta ridefinendo anche il suo profilo
culturale. La posta è alta: nulla
di meno che l'egemonia intellettuale e morale sulla nuova Italia che, giorno
dopo giorno, sta
prendendo corpo sotto i nostri occhi. Giulio Tremonti lo ha capito
perfettamente: e il discorso che
ha appena pronunciato per l'inaugurazione dell'anno accademico all'Università
Cattolica di Milano
ha tutti i caratteri di un autentico manifesto ideologico; un annuncio
interamente proiettato sui tempi
che ci aspettano. Esso segna la fine, per l'attuale maggioranza di governo,
della lunga stagione
dominata dagli "spiriti animali" evocati con tanto successo dal primo
berlusconismo - vitalismo
consumistico, esaltazione del privato, destrutturazione delle regole - e
suggerisce alla destra italiana un nuovo e assai più impegnativo orizzonte
ideale, e un ben diverso quadro di valori. È una vera e propria svolta, che non
dobbiamo sottovalutare.
E in questo senso Tremonti può ben essere considerato tra
coloro che il Whashington Post chiama, non senza qualche ironia, "i convertiti",
passati cioè bruscamente dalle sponde del più intransigente purismo di mercato,
all'invocazione
quotidiana e incalzante di più Stato e di più regole - anche se nel suo caso
(glie ne do atto con
piacere) si tratterebbe di una conversione della prima ora, che conclude per lui
un ripensamento
aperto da una precoce previsione della crisi che stava per verificarsi.
Un'idea campeggia - forte e solitaria - al centro della sua proposta. Dobbiamo
essere capaci di
immettere più etica nell'economia, egli dice. Di costruire un'«economia sociale
di mercato» (la
formula non è nuova, e Tremonti stesso ne indica le fonti non senza eleganza
dottrinaria), in cui al
«paradigma della domanda di beni di consumo», fondata sull'indebitamento e sul
tutto subito, si
possa sostituire «un paradigma morale, civile e politico» che «organizza la
domanda sugli
investimenti collettivi fatti per il bene complessivo: non per il presente ma
per il futuro».
È difficile non essere d'accordo con lui, soprattutto da parte di chi ha scritto
da anni che la
rivoluzione della tecnica «ha bisogno di etica, e di storia attraversata da
disciplinamento morale».
Ma non è questo il punto. Cerchiamo invece di guardare le cose più in
profondità.
A prima vista, sembrerebbe di essere di fronte alla ripetizione - a parti
rovesciate - di uno schema
già noto. Al tentativo cioè di riprodurre un'operazione speculare a quella
compiuta da molti
socialismi europei fra la metà degli anni Ottanta e gli inizi del nuovo secolo.
Allora, per
sopravvivere in un'epoca ancora dominata dall'espansione impetuosa della nuova
economia spinta
dalla rivoluzione tecnologica, partiti di sinistra si adattavano a politiche
anche ultra liberiste. Oggi,
al contrario, di fronte alla fine rovinosa di quell'ondata, forze di destra sono
costrette, per
sopravvivere, ad adottare programmi e linee culturali proprie della più classica
tradizione della
sinistra (a suo modo, lo dice lo stesso Berlusconi: il mio governo «fa cose di
sinistra»).
Già questa prima osservazione ci dice parecchio: che il vento è mutato, e il
problema per la sinistra
non è più di navigargli contro, ma di impedire che qualcuno lo intercetti prima
che gonfi le sue vele,
ora che soffia dalla parte giusta. Questo - del cambiamento della corrente della
storia - dovrebbe
diventare un nostro grande tema: soprattutto di fronte alle giovani generazioni,
che vogliono sentirsi
parlare di futuro. Ma dovremmo esserne davvero capaci, e avere la forza di
proporre un'idea di
Italia all'altezza delle prove che ci aspettano.
C'è tuttavia molto di più. Più etica va benissimo. E però, quale etica? E
qui le cose si complicano.
Noi diciamo: non un'etica "laicista", ma che sappia trovare il divino
nell'accrescersi infinito delle
facoltà umane, e non nella sacralità della natura come vincolo e come barriera.
Un'etica della
trasformazione e non della conservazione; dell'emancipazione e non della
minorità eterna della
specie umana; che non rifiuti l'aumento illimitato della potenza della tecnica,
ma ne determini gli
obiettivi; che non consideri come eterno nessun assetto biologico o sociale, ma
accetti di vederli
tutti come figure del mutamento e della transizione; che cerchi le sue leggi non
nella natura, ma
nella ragione delle donne e degli uomini della nostra specie; che assuma
l'esistenza di valori non
negoziabili, ma solo in quanto anch'essi storicamente determinati: assoluti non
nel senso della loro
trascendenza, ma in quello della loro indisponibilità e immodificabilità nella
situazione data; che
non escluda mai la tecnica dalla vita, ma si limiti a decidere quanta parte
della tecnica debba
incontrare la vita senza passare dal mercato.
E invece il manifesto di Giulio Tremonti mi sembra vada in tutt'altra direzione.
Ed è chiaro perché:
egli ha in mente un disegno culturale ambizioso e strategico. Saldare il
progetto egemonico della
nuova destra non più liberista a quello perseguito dalla Chiesa cattolica (o da
una parte di essa) nel
nostro Paese. Insomma, rifare in qualche modo la Dc. Ed è per questo che
la sua etica (per quel
tanto che viene da lui precisata) tende a tingersi di tonalità antilluministe, e
la sua critica al
"mercatismo" e alla globalizzazione tende a confondersi - proprio come accade
alla dottrina sociale
della Chiesa - con una critica diretta alla modernità e alle sue prospettive
(non vorrei
sovrainterpretare, ma forse è proprio questo - il giudizio sulla nostra
modernità - quello che, al
fondo, non è piaciuto di Tremonti a Mario Draghi, stando alle indicazioni del
Foglio).
Nello stesso giorno in cui Tremonti parlava a Milano, il cardinale Bagnasco
teneva a Roma un altro
importante discorso, in un'altra università, dedicato al futuro della Chiesa
italiana. Non c'è nessuna
particolare sintonia tematica fra i due testi. E tuttavia confesso una
preoccupazione, come posso
dire, di clima intellettuale. C'è un'antica tentazione sempre ricorrente nei
momenti critici della storia
d'Italia: quella di arroccarsi, di doversi difendere dalla modernità, mettendo
in qualche modo la
parrocchia al posto dello Stato (debole o inesistente), e salvarsi così.
Ricordiamocelo tutti ? noi, la
destra, la Chiesa stessa: non è più tempo di questi scambi e di queste paure.
Aldo Schiavone la
Repubblica 24 novembre 2008