Il profitto e l'operaio
Il PRIMO ministro del governo italiano ha
percepito nel 2009 un reddito pari a 11.490 (undicimilaquattrocentonovanta)
volte il reddito di un operaio Fiat di Pomigliano d'Arco.
Le cedole della sua quota personale di Fininvest (Silvio Berlusconi detiene il
63,3% dell'azienda, escluse le azioni possedute dai figli) gli hanno fruttato
l'anno scorso un dividendo di 126,4 milioni di euro. Cifra che corrisponde per
l'appunto a 11.490 volte il reddito di un lavoratore metalmeccanico di
Pomigliano che nello stesso periodo ha risentito della cassa integrazione,
portando a casa circa 11.000 (undicimila) euro lordi. In altri termini,
la persona fisica del nostro primo ministro ha
guadagnato nel 2009 due volte (e più) il monte salari dell'intero stabilimento
al centro della drammatica vertenza che sta rimettendo in gioco le
relazioni sindacali del paese.
Nello stesso periodo, l'amministratore delegato della Fiat,
Sergio Marchionne, ha percepito un compenso di
4 milioni e 782 mila euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di
Pomigliano. Tale cifra comprende il bonus che la Fiat ha deciso di
attribuirgli per il 2009, mentre l'attività svolta dal manager italo-canadese
negli Stati Uniti per Chrysler è stata fornita a titolo gratuito.
Credo non sia più possibile discutere di giustizia sociale e di
redistribuzione del reddito, ma anche di economia e finanza, prescindendo da
queste nude cifre. Da una ventina d'anni la parola egualitarismo è proibita nel
dibattito pubblico, demonizzata alla stregua di un'ideologia totalitaria. Ma nel frattempo imponenti quote della ricchezza nazionale sono state
dirottate dal lavoro dipendente a vantaggio dei profitti, esasperando una
disuguaglianza di reddito senza precedenti storici.
Questo imponente spostamento di punti del Pil dai salari al capitale non ha
certo reso più competitiva l'economia italiana come invece prometteva.
Semmai fotografa, con sintesi brutale, la sconfitta di una sinistra la cui
ragione sociale, per oltre un secolo, si identificò con il miglioramento delle
condizioni di vita dei ceti meno abbienti, primi fra tutti gli operai.
Pervenuta, sia pure per brevi periodi, al governo del paese, la classe dirigente
della sinistra si è legittimata attraverso l'accettazione della cultura di
mercato ma ha finito per confondersi in larga misura nell'establishment
italiano da cui voleva essere accettata, tollerandone in cambio i vizi,
sposandone talvolta i comportamenti.
Se il coefficiente di Gini, cioè l'indicatore statistico con cui gli economisti
cercano di misurare il tasso di disuguaglianza sociale di un paese, colloca
ormai l'Italia ai gradini più bassi dell'Ocse, con un'accelerazione costante a
partire dai primi anni Novanta, è doveroso ricordare che il lavoro dipendente
non ha subito solo decurtazioni proporzionali di reddito. Chi prometteva
"qualità totale" nel ciclo produttivo ha perso quote di mercato anche a seguito
di eccessiva difettosità. La fabbrica automatica che doveva liberare il lavoro
manuale dalla fatica fisica e dal pericolo di infortuni, in cambio di normative
più flessibili, si è rivelata una trovata propagandistica.
Spetterà agli storici di domani capire come mai
l'incremento delle disuguaglianze sia parso così a lungo giustificabile, o
comunque accettabile, a chi le subiva. Il fallimento del comunismo ha
reso improponibile la visione messianica della classe operaia come nucleo di
un'emancipazione scaturita dall'interno del ciclo produttivo, rivoluzionandone
le relazioni gerarchiche e i parametri di retribuzione. Ma nel frattempo
sospingeva i ceti meno abbienti ad affidare il proprio destino nelle mani di leadership
territoriali populiste, non importa se guidate da imprenditori che perseguivano
l'arricchimento personale, ché anzi era proprio il loro successo a figurare come
l'unico modello di comportamento imitabile. A sua volta un sindacalismo
disarmato riusciva a proporsi solo come tutela locale, se necessario in
contrapposizione con altri stabilimenti italiani o più spesso con i lavoratori
dei paesi emergenti.
La speranza fallace che l'arricchimento di pochi generasse maggior benessere per
tutti ha consentito che la presa di potere dei manager divaricasse la
forbice delle retribuzioni, elevando in breve tempo gli stipendi dirigenziali:
da venti o trenta volte la media di un salario operaio, a centinaia di volte. I
profitti realizzati tramite la speculazione finanziaria globale, hanno
completato l'opera.
Il paradosso che viviamo oggi è che la rabbia sociale rischia di finire
appannaggio della demagogia di destra, mentre la sinistra ammutolisce vittima
delle sue inadempienze. Chi ha teorizzato la difesa localistica del proprio
territorio dalle insidie della globalizzazione, naturalmente, propone alle masse
una visione strabica delle disuguaglianze. Denuncia come eccessivi i redditi di
categorie molto visibili ma sparute come i calciatori e i personaggi dello
spettacolo. Oppure addita al pubblico ludibrio di volta in volta i suoi
avversari simbolici, come gli alti magistrati e i dirigenti ministeriali. Ma si
guarda bene dal prendersela con i redditi da capitale, con le rendite
finanziarie, con i compensi dei manager che appartengono al suo sistema di
potere. La piramide sociale, nella visione della destra, può venire scossa dal
terremoto della crisi, ma per uscirne ancora più verticale.
È prevedibile che nei prossimi anni questo malessere genererà un pensiero
radicale e una reazione estremista anche nell'ambito della sinistra, impreparata
a confrontarsi con le regole della finanza, con la riforma dei rapporti di
lavoro, con la crisi del welfare. La morte del comunismo non
elimina in eterno la spinta antagonista, con i suoi aneliti di giustizia e il
suo inevitabile contorno di ambiguità.
Per il momento sarebbe bene che i dirigenti del Pd affascinati dallo stile
Marchionne, colti alla sprovvista dalla minoritaria ma elevata quota di
opposizione espressa dai lavoratori di Pomigliano a un accordo stravolgente le
condizioni di lavoro, cominciassero a riflettere.
Assumendo il tema della disuguaglianza sociale
come prioritario nell'agenda di una sinistra moderna degna delle sue origini.
GAD LERNER La Repubblica 26/6/2010