Il profeta nel purgatorio del Gulag


Quando in Occidente apparve l’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn - scritto fra il 1958 e il
’68, uscì nel ’73 a Parigi - fu come un torrente che s’abbatté sulle menti, le conquistò o le intimidì,
comunque le cambiò per sempre. Il «saggio di inchiesta investigativa» era colmo di fatti, non
confutabili; il tono era quello del profeta; lo sguardo sui campi di Lenin e Stalin aveva l’acutezza
che possiedono gli occhi costantemente spalancati sul dolore. Occhi che scrutano dietro il sipario
srotolato sulle cose; che le disvelano, come nell’Apocalisse quando ogni velo cade. Occhi che
scoprono la paura che muove i mondi e tuttavia prepara la coscienza. Come in Isaia 28, 19: «Solo il
terrore farà capire il discorso».
I fatti e il terrore narrati da Solzenicyn non erano ignoti. Chi voleva sapere, sapeva quasi da
principio. La denuncia più libera era stata negli Anni 30-40: quando Stalin si alleò con Hitler,
quando Orwell scrisse la Fattoria degli animali nel ’44, quando Koestler pubblicò Buio a
mezzogiorno nel ’40, Lo Yogi e il Commissario nel ’45. La denuncia del comunismo totalitario
divenne tabù dopo la guerra vinta con l’aiuto moscovita, creando attorno ai Gulag una sorta di
crosta: quasi un secondo Permafrost, con cui le democrazie avvolsero il Permafrost sovietico. Da
allora i profeti diverranno eretici inascoltati: Ignazio Silone, Victor Kravchenko, Margarete Buber-
Neumann, furono traditori rinnegati per i comunisti sovietici e occidentali e perfino per molti non
comunisti. Così Terra inumana di Joseph Czapski, Hexensabbat di Alexander Weissberg-Cybulski,
Un mondo a parte di Gustaw Herling, Il Grande Terrore di Robert Conquest.

Il 25 settembre ’76, su La Stampa, Primo Levi si dichiara deluso dai dissidenti, e giunge fino a
stabilire una graduatoria etica: «Duole dirlo: il terrore e l’isolazionismo staliniani trasmettono la
loro infezione paralizzante anche ai loro testimoni e contestatori. (...) La loro statura è inferiore a
quella dei loro corrispettivi che hanno combattuto il terrore hitleriano, o che oggi denunciano i
delitti compiuti in Asia e Africa dalla civiltà occidentale».
Solzenicyn fu un torrente perché iniziò a erodere questi tabù, in Francia anche se non in Italia. Qui
lo scrittore venne sminuito, spesso ignorato. Più intelligente e astuto dei compagni francesi, il Pci
seppe costruire un muro, attorno allo scrittore, che lo teneva a distanza e lo rendeva sospetto. Era
troppo russo e sferzante, troppo credente. Disturbava i revisionismi sfumati, e aveva una serietà che
stonava: pochi resistettero al conformismo di un’intellighenzia che a differenza della francese non
stava discostandosi dal partito comunista, negli anni dell’Arcipelago, ma assaporava proprio allora
le sue primizie di potere.
Solzenicyn fu certo un credente, e nell’Italia d’allora - smagata, filistea - questo pesò e ancora pesa.
È raro trovare giovani italiani che ammettano d’esser stati illuminati dall’Arcipelago, dai racconti di
Salamov, da Koestler. Solzenicyn fu tuttavia un credente singolare, in Russia. La fede che non
sfocia in insurrezione, il cristianesimo ortodosso che si sottomette all’autorità, non sono
nell’Arcipelago il suo orizzonte. L’orizzonte sono la verità di fatti, il soffrire degli zek-prigionieri,
l’introspezione di chi tollerò. La purificazione morale e pre-politica di Tolstoj gli è estranea: «In
definitiva il punto non è certo la libertà politica. Lo scopo dello sviluppo dell’umanità non è una
vacua libertà. E neppure una felice organizzazione politica della società. L’essenziale, naturalmente,
sono i fondamenti morali della società! - solo che questo accade alla fine, ma all’inizio? Ma come
primo passo?». La fede ortodossa, lamenta lo scrittore, non si occupa che sbadatamente di questi
primi passi; nasconde le sofferenze troppo umane, terrestri; sembra tutta concentrata sulla finale
palingenesi: sul Cristo risorto, sul Pantocrator vincitore della Terra. Solo i credenti si salvarono nei
Gulag, ma furono credenti peculiari. La seconda parte dell’Arcipelago, dedicata alle tante rivolte nei
campi (Novoçerkassk, Kengir, Sachalin, Vorkuta) narra un’ascesa purgatoriale in cui s’intrecciano
pazienza e rivolta, spiritualità e sete di coltello. Nell’ortodossia cristiana il Purgatorio non c’è.

La parola dissidente non nasce con Solzenicyn ma con lui s’insedia nel nostro linguaggio. Il
dissidente non è l’oppositore, non possedendo gli strumenti per opporsi. Si esprime con la profezia,
col mettersi in disparte, col prepararsi. Fa politica sott’acqua, per vie traverse: con i Samizdat
clandestini o con l’ironia. Chi tanto s’indigna in Italia contro le irriverenze dei comici potrebbe
ricordare quel che fu Radio Erewan, ai tempi dei gulag. Il velo della menzogna fu strappato da
comici e profeti: un lascito che non si sperderà.

 

Barbara Spinelli      La Stampa  5 agosto 2008