Il privato uccide la politica

Sarebbe bello poter ignorare del tutto, forti della cecità del veggente, quel che accade o che è
accaduto dentro il recinto di casa Berlusconi. Si vorrebbe dal politico la fuoriuscita dall’abitazione
privata, il suo spostarsi nell’agorà dove il privato non entra ma vien pudicamente lasciato in
anticamera, come il cappotto che attacchi al gancio quando ti metti al lavoro e non ti occupi solo di
te. Si vorrebbe non sapere quasi nulla dell’uomo politico, se non quel che riguarda il bene comune,
che appartiene alla res publica: nulla delle sue notti o delle sue vacanze, delle sue barche o delle sue
tribali parentele, nulla neanche del suo credere o non credere in Dio. La Cosa Pubblica sarebbe
bello che fosse uno spazio molto ristretto e non straripante: un piccolo lembo di terra dove
l’umanità fa politica.
Si esercita nel mestiere di cittadina votando o giudicando, governando o facendosi governare. A
partire dal momento in cui diciamo che il privato è politico, abbiamo ucciso la politica.
L’abbiamo
dilatata oltre misura, e al tempo stesso l’abbiamo resa inafferrabile, illimitata, informe. Secoli di
pensiero politico e filosofico hanno cercato di delimitare l’ambito in cui l’uomo è animale politico,
per salvaguardare qualche pezzetto almeno di indistruttibile intimità. La fatica non è finita. La
privatizzazione della politica - e della guerra, della pace - è una nave con vele gonfiate di nuovo da
forti venti. Quel che il sovrano fa nella camera da letto o nelle camere da letto è affare della
nazione.

Il politico che oggi si lamenta di questa degradazione farebbe bene a meditare quello che ha fatto e
come l’ha fatto, perché si giungesse a tale baratro e perché le pareti della sua personale dimora
smettessero di esser fatte di pietre e si trasformassero in lastre di vetro, trasparenti al mondo.
Sarkozy soffrì la messa in scena del proprio divorzio da Cécilia, e s’indispettì con la stampa
famelica. Aveva ragione, la stampa davvero è famelica: chiacchiere e gossip sono diventate il pane
quotidiano che mastica e che fa masticare. Ma questa fame fu lui a provocarla, facendo politica coi
suoi matrimoni, le sue gite in yacht, i suoi occhiali Ray-Ban. Fu lui a orchestrare, quasi una piccante
serie tv, la banalissima leggenda del suo matrimonio con Cécilia: prima idilliaco, poi infranto, poi
salvato, infine spezzato. I rotocalchi che imitano l’americano People s’impossessarono del
melodramma, e i giornali seri si misero al passo. I francesi, che amano i neologismi, inventarono la
parola pipolisation: la politica sommersa dallo spirito people, quando non sa bene quel che deve
fare e che può. L’obiettivo di Sarkozy era di affascinare la provincia più che la capitale, l’elettore
assetato di storielle più che di storia. Funzionò il tempo della campagna elettorale ma poi la tanto
encomiata nuova trasparenza inciampò. Con Carla Bruni la golosità di giornali e pubblico continuò,
ma l’Eliseo si fece più sommesso.
L’imperatore che si mette in scena nudo sarà nudo sempre e necessariamente dovrà sopportarne gli
infortuni.
È spogliato in partenza, prima ancora che il bambino lo scorga e dica: «È nudo». In un
blog (ghostwritersondemand.splinder.com) si legge del «raro horrorshow» che da qualche giorno va
in onda in Italia: «Come se il re, nudo, mostrasse di non avere un sesso (o di averne tre, tutti diversi,
o di essere tutto un solo, gigantesco sesso indistinto)». Così successe anche a Clinton, quando il
gorgo dell’intimità parve risucchiarlo assieme a Monica Lewinsky. Sia pure molto diversa, la
pubblicità data alla conversione religiosa di Tony Blair ha le stesse caratteristiche della politica che
s’affaccia incongruamente sull’intimo. Son tutte cose che non riguardano l’agorà, a meno di non
sapere più in cosa precisamente consista lo spazio separato di conversazione cittadina che secondo
Aristotele fonda la civiltà e che i barbari non possiedono.
Clinton, Sarkozy e Berlusconi hanno coltivato invece queste cose, come le coltivavano i monarchi
dell’ancien régime le cui teste erano destinate alla ghigliottina prima ancora che venissero tagliate.
Goethe ebbe parole giuste, quando descrisse l’inanità di chi portava la corona senza sapere quel che
portava: «Perché mai, come con una scopa, un tale re viene spazzato via? Fossero stati veri re, tutti
sarebbero ancora indenni». Quel che accadeva dentro le regali mura casalinghe, nell’ancien régime,
invadeva ormai ogni interstizio: i tic e i vezzi di Luigi XVI, le peripezie sentimentali di Maria
Antonietta, il ridicolo villaggio che la regina fece edificare accanto a Versailles, per imitare la
bucolica vita dei contadinelli e contestare i pubblici fasti della corte. Da quel villaggio finto con le
sue graziose altalene si passò nel giro d’un attimo alla ghigliottina.
 

Berlusconi è entrato in politica assumendo in pieno la fusione tra privato e pubblico: nella vita
personale come in quella degli interessi aziendali. Vide che l’aria dei tempi era questa, ed era aria
possente a destra e a sinistra.
Aveva radici in molte culture e anche in quella degli Anni Sessanta,
nel grande rimescolamento di generi e nella grande fusione tra ribellione politica e personale che
animò lungamente i movimenti contestatori, le donne femministe, e tanti giovani che correvano
trafelati e proclamavano che il privato era pubblico e il pubblico privato. Berlusconi fiutò quel
vento, ci costruì sopra un suo distorto immaginario televisivo, e cominciò la politica come i
monarchi descritti da Goethe: mettendo in scena vistosamente la propria famiglia, il proprio
giaciglio, perfino il proprio personale mausoleo. Ecco la famiglia perfetta, diceva, e sulla famiglia si
gettò anche ideologicamente, trasformandola in supremo valore italiano e in colonna d’un nuovo
ordine morale.
Non importavano le contraddizioni personali, né i valori che cozzavano contro la
pratica: non contano d’altronde mai, nella volontà di potenza che si sfrena. Una volta privatizzata la
politica, per forza di cose il privato diveniva kitsch: immagine politico-pubblicitaria che imbellisce
la realtà, nanetto nel giardino, cupola di vetro con la neve che scende su minuscole fate.
Berlusconi è il più grande privatizzatore della politica in Occidente. Altri si son ritratti inorriditi
dopo aver suscitato lo spettro, come avvenne a Sarkozy e a Clinton. Lui no, il privato è come
l’avesse divorato e forse addirittura non c’è mai stato posto nella sua mente per l’idea di pubblico.
Non è questione solo della sua famiglia. Anche quando governa preferisce il recinto personale ai
luoghi delle istituzioni: è nel recinto che riunisce ministri, convoca oppositori, nomina dirigenti Rai.
Praticamente tutto si cucina a Palazzo Grazioli. È significativo che la dimora romana del Premier si
sia metamorfizzata in Palazzo per eccellenza.

C’è qualcosa di smodato nello spazio che occupa il divorzio dei Berlusconi: un oltrepassare i limiti
che distrugge ed è autodistruzione. C’è un ribellismo ibrido, che mescola passioni anticonformiste
mal vissute e un più profondo, mimetico conformismo. Da qualche giorno gli italiani son
completamente stregati dalla fiction che gli si snoda davanti. Se li guardi per strada o nei caffè o
nelle stazioni, vedi occhi inchiodati sulle pagine (anzi le paginate) che narrano la leggenda sui
giornali. Vengono in mente i rotocalchi inventati da Edilio Rusconi subito dopo l’ultima guerra -
Oggi, poi Gente - che snocciolavano le storie delle famiglie reali agli albori della Repubblica. Erano
re da ghigliottina anche quelli, il minimalismo delle storie era totale, ma la gente ne era stregata.
Siamo ancora lì.

Barbara Spinelli     La Stampa  6 maggio 2009