Priapismo al potere
Il presidente del consiglio Silvio Berlusconi non riesce più a contenere
l’alluvione di notizie, gossip, ricatti, segreti da boudoir, intemperanze
sessuali che corrono sul filo. Il puzzle di questo personaggio da commedia
all’italiana nella versione più strapaesana e pecoreccia si sta
componendo in quella patetica verità che ancora, con indegna fedeltà servile, i
suoi scherani e cortigiani si affannano a negare o ad attenuare. Siamo dunque
governati da una specie di dottor Katzone, a scanso di equivoci preciso di non
volermi riferire all’epiteto ingiurioso “cazzone” mascherandolo con una grafia
cosmopolita, quanto al personaggio del superpriapico collezionista di femmine
creato da Federico Fellini nella “Città delle Donne” ed interpretato da un
indimenticabile Ettore Manni. Il maniacale e commosso rubricatore di femmine le
esponeva in una galleria di immagini in merito ai loro attributi erotici e alle
loro prestazioni sessuali dalle più ovvie alle più eccentriche dopo averne
espunto qualsiasi riferimento di altra umanità. Ma i geni sanno creare figure
sublimi attraverso l’iperbole del grottesco, i grandi lettrati come Gadda
raccontano con ineguagliata maestria i rapporti fra potere ed erotismo, il suo
“Eros e Priapo” dovrebbe essere lettura d’obbligo di questi tempi. Silvio
Berlusconi invece, per ciò che la marea di indiscrezioni e rivelazioni porta a
galla, si configura come la versione infima di quelle basse pulsioni. Il
ragazzino fermato dalla polizia perché, armato di telecamera amatoriale
riprendeva di nascosto le parti intime delle donne a loro insaputa, sembra
essere il suddito epigono del nostro leader, la differenza sta solo nei mezzi.
Stupisce e amareggia pensare al vasto consenso di cui gode presso
l’elettorato femminile un uomo la cui visione della donna è confinata negli
angusti confini del suo priapismo.
Moni Ovadia l'Unità 20.6.09
LA PROFEZIA DEL 24 LUGLIO
Tutt´a un tratto, il modo di camminare di B. sembra agli
spettatori dei telegiornali buffo, e benché avanzi con un passo studiatamente
spedito, come chi faccia intendere di avere molto da fare, e cose della massima
urgenza universale, più che avanzare sembra squagliarsela. E più che camminare
cadere da una gamba all´altra. Giuliano Ferrara ha indirizzato ieri a B. dalla
prima pagina del Foglio una scintillante lettera aperta (ah, quanto ho aspettato
di lodare Giuliano F. su queste colonne!), con un titolo definitivo: "Il 24
luglio". Chissà se B. ha inquadrato fin dal titolo di che cosa si trattasse, o
la sua felice smemoratezza – come quella volta che, avvertito di papà Cervi, si
offrì subito di andarlo a trovare - gli ha attutito il colpo. Chissà se ha
chiesto ai vicini (era in giro per l´Europa, ieri) che cosa diavolo significasse
il 24 luglio, e chissà che cosa si siano ingegnati di rispondergli. Il giorno
prima del 25 luglio, gli avranno detto, o anche, dopotutto, il giorno dopo il
23. Era il 1943, c´era una guerra spaventosa, mucchi di morti a milioni, il
bombardamento di San Lorenzo era avvenuto cinque giorni prima. Non scherziamo,
paragoni così non li fa Giuliano F., non li fa nessuno. Le nostre sono
bazzecole.
Non la caduta di un dittatore, promessa di liberazione e intanto preludio a un nuovo disonore e a una carneficina: semplicemente, la tragedia di un uomo ridicolo. La vigilia della fine di un commesso viaggiatore. Escluso l´accostamento che suonerebbe oltraggioso, l´invenzione di Giuliano F. è la più suggestiva. È una storia italiana. La storia del capovolgimento repentino di un successo, il naufragio – per evocare un´immagine più appropriata al protagonista - di una nave da crociera sulla quale si raccontavano barzellette fesse e si ballava sfrenatamente fino a un momento fa, e un momento dopo i topi corrono già al punto di raccolta delle scialuppe. Varrà la pena di fendere la calca dei naufraghi fino a guadagnarsi lo sguardo migliore dal ponte, come un Plinio curioso di scrutare un´ennesima prova della natura umana. Qualcuno resterà accanto al capo che va a fondo (qualcuno resta sempre, e non è detto che siano i peggiori). Qualcuno se la darà a gambe, il più lontano possibile (l´ambasciata tedesca a Roma, annoterà un gerarca nazista, diventò in quella fine di luglio una affollatissima agenzia di viaggi). Qualcuno prenderà la prima fila nel ripudio del capo che vacilla – nel codardo oltraggio, diciamo così. Ammesso che non si ricordi bene come andarono le cose il 24 luglio del 1943 – e poi il 25 luglio del 1943 - B. si ricorda senz´altro come sono andate col tracollo della Prima Repubblica, del quale, in fondo, è stato il paradossale beneficiario per tanti anni: ancora un po´, e avrebbe toccato anche lui il ventennio. È qui il primo difetto veniale dell´invenzione di Giuliano F.: la formula del "24 luglio permanente". "Altrimenti – ha scritto - si andrà avanti con questo 24 luglio permanente". Credo di no. Come nella chimica delle cristallizzazioni, quella degli amori che nascono e degli amori che muoiono secondo Stendhal, c´è la precipitazione, e il 24 luglio è la precipitazione. Dura poco, quando arriva, il 24 luglio. E, non per allarmare ancora di più B., cui auguro un commiato confortevole, ma il 24 luglio non fu nemmeno una vera vigilia: la riunione del Gran Consiglio del fascismo cominciò quel pomeriggio, con la relazione di M., e finì alle tre di notte. Il 25 luglio sì, ma solo per tre ore. Poi venne il pomeriggio, la visita di M. al re, il suo congedo in soli venti minuti, il suo umiliante arresto in una "lercia autoambulanza" all´uscita. Che una febbre improvvisa attraversi una maggioranza parlamentare "introvabile" fino a ieri per l´ampiezza e, per così dire, l´allegra superfluità, si spiega con quell´antica e rinnovata memoria di naufragi e ribaltoni e 25 lugli e hotel Raphael. Si dovrebbe scattarne un´istantanea, della larga maggioranza, per studiare l´inclinazione dello sguardo di ciascuno: verso il capo, verso il vicino, verso l´uscita di sicurezza più prossima.
Nella notte del Gran Consiglio, nel breve trapasso fra il 24 e il 25 luglio, diciannove votarono contro M., sette contro, uno si astenne. Giochi fatti. Succede così, quando si apre una crepa, e non viene rimarginata. Intendiamoci, questi sono ancora pieni di soldi e di bischerate. Però si può già, senza iattanza – sono sempre loro che tengono il coltello per il telecomando - immaginarne le mosse. Che misure starà prendendo fra sé e sé un intrepido avvocato difensore secondo il quale – ancora alla data di ieri - B. non pagherebbe mai una donna, avendone "grandi quantitativi"? Duri quanto duri la notte del 24 luglio, l´epitaffio è già stato dettato. Quella che ballava fino a un momento fa era l´Italia dei grandi quantitativi, di donne e di tutto. Meglio che sul solito Titanic, come i magnati e i magnaccia sull´incrociatore Aurora. Erano altri tempi, il 24 luglio, e le veline erano ancora tassativi fogli di istruzione per i mezzi di comunicazione, non ragazze ammucchiate nella stanza adiacente alle istituzioni. Maria José, che era la moglie dell´erede al trono ma detestava il fascismo e aveva a che fare con inglesi e americani e bravi monsignori, fu tuttavia disgustata dalla rapidità con cui "la gente buttava giù le statue e i busti di Mussolini, i fasci littori, le aquile e tutte le insegne del regime... Soltanto ieri lo avevano osannato, ora lo condannavano furiosamente".
La crepa si era aperta da un po´, del resto. Dino Grandi, che fu poi il promotore dell´ordine del giorno – della notte - del 25 luglio, aveva già trovato "terrea" la faccia del duce. Difficile trovare terrea quella di B. – c´è da scavare - ma l´impressione è quella. Lo guardavo mentre il ministro della Giustizia, parlando dello stato delle carceri (si può anche scrivere maiuscolo: lo Stato delle carceri), rivolto alla sedia sulla quale era seduto come sulle spine, lo chiamava "sostenitore e testimone di una nuova moralità politica". Dov´è l´altro punto debole, direi, della lettera aperta di Giuliano F.? Nella conclusione: "Ora tocca a lui tirarsi su da questa incredibile condizione di minorità civile in cui si è ficcato, e reagire con scrupolo, intelligenza e forza d´animo". Mettiamo che B., ieri mattina, leggesse, e dopo aver fatto tutti gli scongiuri che un necrologio politico come quello suggerisce alla superstizione di un uomo di Stato, e dopo aver chiesto in giro che accidenti è successo il 24 luglio, chiamasse Giuliano F. e gli chiedesse francamente: "Va bene, ho capito, ma che cosa devo fare? Se tu fossi nei miei panni, che cosa faresti?" Credo – stavo per dire "temo", ma non lo temo affatto - che il lungimirante Giuliano non avrebbe avuto molto da dirgli, perché si è fatto improvvisamente troppo tardi. Il 23 si ballava e non c´era tempo per pensare, e l´alba del 25 si annuncia già con un rumore di autoambulanze. Gli avrebbe potuto dire di lasciare la politica: dopotutto non è mai stato l´affar suo, non ha mai preso gli ordini, ha fatto una sua parte colossale, ha un´età (questo non è facile da dirgli), una famiglia di cui rimontare i pezzi, luoghi meravigliosi in cui abbronzarsi davvero e, con precauzioni minime, scansare i fotografi. E provare, con un dignitoso congedo, a far continuare qualcosa: dopotutto Gianni Letta è da sempre lì per questo. Per una uscita del genere, venti minuti al Quirinale sarebbero perfino troppi. Certo, c´è sempre la minaccia dei maramaldi del giorno dopo. Oppure resistere (resistere, resistere, eccetera), ma alla condizione di dire agli italiani: "L´ho fatta grossa, sono un tipo così, la politica non fa per me, però mi piace governare. Mi piacciono troppo altre cose di cui ormai sapete, e di quelle mi scuso". Potrebbe anche, abbastanza a buon diritto, fare una vasta chiamata di correo: "Io sono un tipo così, ho questo benedetto tic, ma chi è senza peccato si alzi e scagli la sua pietra. E per giunta voi non avete nemmeno il mio tic: siete stati accucciati sotto la mia tavola a ingrassare degli avanzi". Pensiero ingiusto, è pieno di gente perbene e libera. Come al solito, nessuno si alzerebbe, e tanti si terrebbero cara la propria pietra, e la propria monetina, per il momento, non si sa mai, in cui dargli il benservito. Succede così, nel basso impero. E questo non è impero, ma basso sì.
Adriano
Sofri La Repubblica 19 giugno
2009