PRETE OPERAIO OSTINATAMENTE DALLA PARTE DEGLI OPPRESSI

Insieme a figure come Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, David Maria Turoldo, Giulio Facibeni, Luigi Rosadoni, Giovanni Vannucci, Lorenzo Milani, Enzo Mazzi, don Bruno Borghi, morto a Firenze il 9 luglio 2006, è senz’altro tra coloro che più fortemente hanno influenzato e favorito la nascita di quell’originalissimo laboratorio politico ed ecclesiale che fu la Toscana degli anni ‘50 e ‘60. E che diede origine, oltre che alla grande stagione del rinnovamento conciliare, anche all’apertura del dialogo tra cattolici e comunisti. La sua figura è forse meno conosciuta di altri protagonisti di quel periodo; Borghi fu però tra coloro che, in ambito ecclesiale, fecero le scelte più coraggiose e dirompenti, sempre in prima linea, ha scritto Enzo Mazzi sull’edizione fiorentina dell’Unità, l’11/7, "nella scelta delle realtà umane più emarginate, umiliate e offese".

Ma, precisa don Enzo, "è troppo facile parlare - come spesso si fa nel mondo cattolico - di scelta dei poveri o di ‘scelta preferenziale dei poveri’, come dire si scelgono sia i poveri che i ricchi con un occhio di preferenza verso i poveri. Il che significa sostanzialmente elemosine coi soldi dei ricchi e moralismo. No, per Bruno Borghi la scelta dei poveri, fin dal seminario negli anni Quaranta, ebbe il significato politico in senso lato di scelta di classe".

Nato nel 1922, don Borghi fu ordinato prete alla fine degli anni ‘40: nel seminario di Firenze era stato compagno di don Lorenzo Milani, con il quale conservò una profonda amicizia. Milani (come testimonia l’epistolario tra i due, in parte pubblicato nell’edizione Mondadori delle Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana) trovò in Borghi, più vecchio di lui di qualche anno, un esempio ed un solido punto di riferimento nel suo processo di "sborghesizzazione".

Già nel 1950, infatti, Borghi aveva scelto, subito dopo la scomunica di Pio XII ai comunisti e in piena guerra fredda, di lavorare in fabbrica. Don Bruno desiderava immedesimarsi totalmente nella condizione della classe operaia, in cui vedeva la presenza di valori e istanze capaci di rivitalizzare una realtà sociale ed ecclesiale in cui cominciavano, dalla base, a nascere i primi fermenti del rinnovamento. Lavorò in diverse fabbriche fiorentine, con un progetto complessivo, capace di coinvolgere dal basso diversi soggetti sociali, di integrare fabbrica e territorio, lotte sindacali e lotte per i servizi e le riforme, impegnandosi perché la classe operaia uscisse dalla propria condizione di separatezza e trovasse collegamenti con altri soggetti sociali di trasformazione, le donne, gli studenti, i preti e i cristiani impegnati nel territorio e nelle parrocchie più avanzate.
Nell’ottobre 1964 fu autore, insieme a don Milani, di una "Lettera ai sacerdoti della diocesi fiorentina", in cui chiedevano ai loro colleghi sacerdoti di rompere il muro di omertà ecclesiastica e di prendere apertamente le difese di padre Balducci e di mons. Gino Bonanni (rettore del seminario di Firenze), contro l’autoritarismo del vescovo Ermenegildo Florit, espressamente inviato a Firenze per normalizzare la diocesi dopo la stagione del card. Elia Della Costa. Durissima, pochi giorni dopo, la risposta di Florit, che parla di due sacerdoti che "tanto avventatamente e nella forma più inopportuna, hanno dato a me, loro Vescovo, pubblico motivo di sofferenza ed alla Comunità diocesana ragione di frattura e di dissenso". A Milani e Borghi il cardinale assicura di poter ottenere da lui, "in ogni momento, le lettere di escardinazione e procurarsi così quella libertà e serenità che è da loro richiesta, scegliendosi una Diocesi che sia in grado di corrispondere alle loro esigenze".
Negli anni successivi, Borghi, di nuovo a fianco di Milani nel denunciare l’ambiguo ruolo dei cappellani militari nell’esercito e nella difesa dell’obiezione di coscienza, allora (e fino al 1972) fuori legge: fu infatti autore di una Lettera aperta ai cappellani militari di poco precedente alla più famosa Lettera ai cappellani militari di Milani. Nell’ottobre del 1968, fu al fianco di un altro ex compagno di seminario, don Enzo Mazzi, che la Curia aveva cacciato dalla parrocchia dell’Isolotto insieme a don Paolo Caciolli. Contro l’autoritarismo del vescovo e delle gerarchie, la comunità dell’Isolotto occupò la chiesa in segno di protesta. In quell’occasione don Sergio Gomiti, parroco della Casella (periferia di Firenze), diede le dimissioni dichiarandosi corresponsabile delle accuse che avevano portato all’allontanamento dei preti dell’Isolotto. La stessa cosa, poco dopo, fece anche don Bruno Borghi, allora parroco di Quintale. Nel dicembre del 1969 Borghi sarà in piazza dell’Isolotto a celebrare, con don Enzo Mazzi e il teologo spagnolo Ruiz Gonzalez, la prima veglia di Natale all’aperto celebrata dalla comunità dell’Isolotto.

In seguito Borghi abbandonò il sacerdozio. Decise di dare vita ad una famiglia ed ebbe un figlio. Se terminò il suo impegno all’interno della istituzione ecclesiastica, non finì quello in difesa degli oppressi. Negli ultimi anni Borghi era impegnato a fianco dei carcerati, come volontario nel carcere fiorentino di Sollicciano.

Nessun intento assistenzialistico, ma - come nella stagione vissuta da prete operaio - la volontà di vivere accanto agli ultimi per lottare al loro fianco. Per questo, nei mesi scorsi era tornato a denunciare pubblicamente il clima di intimidazione e le violenze psicologiche e fisiche cui vengono sottoposti i detenuti: "Quando sentiamo - aveva scritto su Fuoriluogo, supplemento del Manifesto, il 6/12/2005 - raccontare con quale rituale si svolgono alcune di queste violenze, il pensiero corre a Guantánamo, ad Abu Ghraib. Questi luoghi dell’orrore possono incendiare la fantasia di menti malate, fare scuola? Come volontario vengo da un’altra scuola. Si chiama Costituzione della Repubblica Italiana. L’art. 27 della Costituzione dice: ‘Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione del condannato’. La mia presenza a Sollicciano nasce direttamente da questo articolo. Se la finalità della pena è esclusivamente educativa, è incompatibile con ogni tipo di violenza". Perché se "l’utopia di una società senza carcere è molto lontana", "l’art. 27 della Costituzione ci fa sperare che possiamo liberarci di questo carcere".

Valerio Gigante   ADISTA notizie 2006   n. 57