PRECARIETA’
La precarietà è una condizione ormai dominante tra i giovani e in ampie fasce di adulti.
Alla base di questa situazione di angosciosa inquietudine che ruba l’entusiasmo per il futuro ai primi e che impedisce ai secondi di dispiegare pienamente le loro potenzialità, c’è soprattutto la precarizzazione generalizzata del mondo del lavoro.
La precarizzazione, secondo la mentalità diffusa, sarebbe esigita dalla globalizzazione e dalla conseguente necessità di non perdere la competitività dei nostri prodotti sui mercati internazionali. In realtà pare invece una politica finalizzata a far crescere i profitti di pochi a danno dei tanti che lavorano, sfruttando furbescamente i problemi e le opportunità che la mondializzazione porta con sé. La precarizzazione è piuttosto la conseguenza di una politica governativa - che coinvolge anche la sanità, lo stato sociale, la scuola, l’immigrazione e la previdenza - tendente ad affievolire i diritti e le funzioni pubbliche, e che per contro mira a fare della competizione tra individui la molla per lo sviluppo e la gestione dell’economia.
In Italia la precarietà, già diffusa in precedenza, è diventata norma con la legge 30 del 2003, la cosiddetta «legge Biagi» di riforma del mercato del lavoro.
Con essa si legalizza la precarietà, e viene reso possibile affittare, trasferire, svendere i lavoratori come merce, a vantaggio del profitto. Obiettivo di fatto di questa legge è l’eliminazione del conflitto di lavoro collettivo, l’indebolimento della forza dei lavoratori, il ridimensionamento del sindacato ad un ruolo subordinato e di appoggio a tale politica, l’abolizione della contrattazione collettiva, trasformata in rapporto individuale tra lavoratori ed azienda.
Con questa legge, in forza dello staff leasing (somministrazione di manodopera) il lavoratore diventa merce liberamente trattabile attraverso una nuova figura imprenditoriale, quella del commerciante di lavoro altrui, che trae profitto dal lavoro degli altri attraverso un’attività di interposizione permanente. Questo imprenditore assume lavoratori, i quali però svolgono la loro prestazione sotto la direzione e il controllo di un’impresa terza. Insomma, due padroni invece di uno. Con il trasferimento d’azienda, poi, i singoli lavoratori possono venire trasferiti da un azienda all’altra senza il loro consenso. Tale opportunità offre, a piacimento dei padroni, la possibilità di espellere lavoratori sindacalizzati particolarmente combattivi, sia inserendoli in aziende dove si applicano contratti meno favorevoli per loro, sia creando unità produttive con meno di 15 dipendenti dove non si applica lo Statuto dei lavoratori.
E poi la legge Biagi prevede il part-time, entro il quale il lavoratore però non ha la certezza dei giorni della settimana o del mese in cui lavorerà; il job in call (lavoro a chiamata), che trasforma il lavoratore in uno «squillo», a disposizione del padrone che lo chiama secondo le sue esigenze; il job sharing (lavoro ripartito), dove due e più lavoratori sono obbligati in solido verso il datore di lavoro per una prestazione lavorativa che li costringe a vivere in simbiosi, dipendenti non solo dal padrone, ma anche l’uno dall’altro. Ma non è tutto. C’è il lavoro a progetto che, contrabbandato come lavoro autonomo, è in realtà lavoro dipendente senza i relativi diritti minimi. E in fine c’è il contratto di apprendistato, che legalizza il lavoro dei quindicenni. Secondo un recentissimo sondaggio dell’Eurispes, su un campione di 446 lavoratori atipici, tra i 18 e i 39 anni, negative appaiono le conseguenze della precarietà sulle loro esistenze. Più del 63 per cento delle donne, ad esempio, costata che la legge Biagi non garantisce «per niente» il loro diritto alla maternità, Il 73,3 per cento dell’intero campione denuncia poi difficoltà a contrarre un mutuo per la casa, mentre il 31,2 per cento trova difficoltà a sposarsi. Per non parlare del 63,2 percento che accusa, come conseguenza del proprio stato di precarietà, ansia, stress e depressione. Cosa si può contrapporre, come strategia globale, ad un siffatto disegno deregolatore? Una strategia di inclusione fondata sul riconoscimento dei diritti, nell’ambito di un progetto di «lavoro sicuro». Questo va inteso non tanto nel vecchio senso di inamovibilità dal posto di lavoro, ma nel senso di considerare le professionalità come patrimoni. In quanto tali queste dovranno essere valorizzate, in virtù dell’apporto che il singolo lavoratore dà a sé, all’impresa e alla comunità in cui è inserito. La qual cosa richiede necessariamente protezione, sul lavoro, nel mercato, nel territorio, a prescindere dal rapporto che ha con il datore di lavoro.
(Romolo Menighetti su Rocca del 15 Luglio 2005)