Potere vaticano nel trattato di Lisbona

Nell'indifferenza generale, il 1° dicembre entra in vigore il Trattato di Lisbona. Dire che è stata
un'operazione di vertice è dire poco. Che la si sia voluta tale, lo ha confermato Giuliano Amato
secondo il quale i capi dell'Ue avevano «deciso» di rendere il nuovo trattato «illeggibile» per evitare
che le riforme chiave fossero riconosciute ad una prima lettura e magari seguite da proposte di
referendum nei singoli stati membri.
C'è chi invece indifferente non è stato ma anzi ha aspettato con trepidazione l'ultima firma
necessaria al completamento della ratifica del trattato apposta dal ceco Vaclav Klaus. Senza quella
firma, senza l'entrata in vigore del Trattato, l'attività tenace svolta dalla Santa Sede per assurgere a
un riconoscimento istituzionale da parte dell'Ue
avrebbe potuto essere annullata da futuri dirigenti
dell'Unione, meno propensi a cedere alle pressioni vaticane.
Nel 1996 il Consiglio europeo di Torino aveva respinto la richiesta della Comece (Commissione dei
vescovi europei) di riconoscere un ruolo pubblico alle chiese con la motivazione che la Santa Sede
non era uno stato membro dell'Unione. Né poteva diventarlo dato che - unico stato in Europa questa
non è firmataria della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Ciò
nonostante, negli ultimi otto anni, da quando fu messa mano alla elaborazione del trattato
costituzionale europeo, la richiesta delle gerarchie vaticane ha fatto grandi passi in avanti.

Insistendo sulla «morale naturale» e sui «valori universali» della dottrina cattolica e, soprattutto,
mettendo i suoi servitori più fedeli nei posti chiave all'interno della Commissione, la Chiesa
cattolica ha ottenuto ciò che le era stato rifiutato nel 1996, ovvero la menzione delle chiese in un
documento legislativo europeo
. Nel trattato di Amsterdam, nonostante le insistenze affinché lo
status delle chiese fosse accolto nel corpo del testo, il Vaticano ottenne solo una dichiarazione
aggiuntiva annessa al Trattato. Invece, ecco che qualche anno dopo, nella bozza del Trattato
costituzionale europeo, appare un articolo sullo status delle chiese, questa volta all'interno del
trattato stesso, nonostante un folto gruppo di parlamentari, fra cui gli italiani Lamberto Dini e Elena
Paciotti, ne avessero chiesto la soppressione per vari motivi ma soprattutto perché l'Unione non ha,
e la Convenzione non ricerca, una competenza nel settore della teologia o della filosofia.
La tattica seguita dalle gerarchie cattoliche per arrivare a tanto è stata duplice: chiedere due cose per
ottenerne una e alzare un gran polverone su quella rinunciabile - la menzione delle radici cristiane in
modo da far passare quella irrinunciabile contenuta nell'art. 17 del nuovo trattato, difficile da far
ingoiare ad una popolazione secolarizzata come quella europea.

L'articolo 17 rassicura il Vaticano circa tre obiettivi prioritari. Primo: il riconoscimento della
dimensione istituzionale della libertà religiosa. Secondo il Vaticano, la dimensione religiosa si
estende a tutto ciò che riguarda l'essere umano e siccome la chiesa si proclama «esperta in umanità»
è giusto che le sia riconosciuto uno status specifico, diverso da quello attribuito alle associazioni
della società civile.
Secondo: la facoltà per le chiese di intervenire su quei progetti di legge europei
considerati di loro competenza prima che tali progetti arrivino in aula.
Con ciò la chiesa cattolica,
ente privato i cui rappresentanti non sono eletti dai propri fedeli, entra a far parte del processo
legislativo europeo provocando un duplice danno: la delegittimazione del parlamento, poiché i
membri eletti non bastano più a rappresentare le istanze degli elettori e l'inquinamento del sistema
di democrazia rappresentativa, pilastro dello stato di diritto.

Terzo: l'esenzione da quelle leggi e normative europee che sono in contrasto con la dottrina morale
cattolica.
Ciò riguarda in particolare la facoltà per le organizzazioni cattoliche che gestiscono
servizi pubblici quali scuole, ospedali, ecc. di discriminare i propri dipendenti in base alla lororeligione e scelte di vita.

È ciò che accade già in Italia per gli insegnanti di religione la cui
assunzione o permanenza in servizio possono essere bocciate dalla diocesi di appartenenza qualora
questa consideri che non si attengono alla morale cattolica.
Per Papa Benedetto XVI l'articolo 17 garantisce i «diritti istituzionali» delle chiese. Che cosa ne
pensano i nostri rappresentanti che hanno votato a favore del Trattato di Lisbona non ci è dato
sapere.

Vera Pegna    il manifesto  29 novembre 2009