Populismo selettivo
La
democrazia italiana sta correndo il rischio d´essere schiacciata tra il "presidenzialismo
assoluto" e il populismo elettronico. È un rischio grave, di cui si
dovrebbe essere consapevoli nel momento in cui si parla di aprire addirittura
una stagione costituente.
Ed è un rischio reale, come dimostrano in modo eloquente alcuni fatti
significativi delle ultime settimane, tra i quali spicca l´alto e severo monito
del presidente della Repubblica. Berlusconi non si limita a chiedere una
maggiore efficienza dell´azione di governo. Pretende una radicale
ridefinizione del ruolo del presidente del Consiglio, con una
concentrazione di potere nelle sue mani senza precedenti e senza controlli,
alterando, e non riformando, la forma di governo disegnata dalla Costituzione.
Consapevoli o no, Berlusconi e i suoi continuano a muoversi secondo un modello
messo a punto negli Stati Uniti nel 1994 da un parlamentare repubblicano,
Newt Gingrich, che proponeva un "Contratto con l´America" e il passaggio a
un "Congresso virtuale" (collegati elettronicamente, i cittadini avrebbero
votato le leggi al posto dei parlamentari). Sappiamo che Berlusconi fece proprio
il primo suggerimento, firmando in diretta televisiva il non dimenticato
"Contratto con gli italiani". Ora si indica una strada per delegittimare il
Parlamento, già minacciato d´una riduzione ad una sorta di riunione di famiglia
di cinque persone, quanti sono i presidenti dei gruppi parlamentari, che
voterebbero al posto dei singoli senatori o deputati. Fallito negli Stati Uniti,
il modello Gingrich troverà in Italia la sua terra d´elezione?
Cogliamo così il populismo nella sua versione più radicale, che ispira
l´azione quotidiana del presidente del Consiglio, che si è da tempo manifestato
nell´accorta e totalitaria gestione del sistema della comunicazione e che ora
attende il suo compimento finale, con l´accentramento dei poteri nelle mani del
primo ministro e un incontro fatale con le tecnologie elettroniche. Di
questo modo d´intendere la politica e lo Stato Berlusconi ha dato pubblica
testimonianza quando, in apertura del congresso costituente del Popolo della
Libertà, ha descritto l´intero costituzionalismo moderno appunto nella chiave,
abusiva e inquietante, di una sua radice populista. E l´insofferenza per
ogni forma di controllo e per le stesse regole dello Stato di diritto, caratteri
tipici del populismo di destra, ritornano ossessivamente nelle più impegnative
vicende recenti. Quando Napolitano ha rifiutato di firmare il decreto
legge sul caso Englaro, Berlusconi ha minacciato un ricorso al popolo,
costituzionalmente improponibile, perché il potere di decretazione fosse
attribuito al governo fuori d´ogni controllo.
Viviamo, però, in un clima di populismo "selettivo". Quando esalta la voce del
popolo, Berlusconi dimentica del tutto che questa voce si levò nel giugno 2006,
quando proprio un referendum popolare bocciò la sua proposta di riforma
costituzionale. Quel voto, infatti, viene svalutato imputandolo non ai
cittadini, ma alla "sinistra", ai "comunisti". Questo perché si vuole
cancellarne l´indubbio significato politico nel momento in cui si cerca di
imboccare una strada preoccupante come quella allora bloccata. Dopo il
referendum, infatti, si sottolineò che, evitato lo stravolgimento, la
Costituzione aveva bisogno di una "buona manutenzione": esattamente l´opposto di
quel che oggi propone Berlusconi, chiedendo in primo luogo d´essere libero da
ogni controllo nell´emanazione dei decreti legge e di spostare sul presidente
del Consiglio il potere di sciogliere le Camere. In questo modo, però, non si va
verso una forma di governo parlamentare razionalizzata, ma verso un primato
assoluto dell´esecutivo, anzi di chi lo presiede, che contrasta con il sistema
costituzionale vigente. Dopo aver trasferito la sede del governo a casa propria,
ora Berlusconi vuole portare a compimento il suo progetto di privatizzazione
delle funzioni di governo trasferendo nello Stato il modello già realizzato per
il suo nuovo partito, descritto senza reticenze nell´articolo 15 dello statuto
sui poteri del presidente del Pdl: "Ha la rappresentanza politica del partito, e
lo rappresenta in tutte le sedi politiche e istituzionali, ne dirige l´ordinato
funzionamento e la definizione delle linee politiche e programmatiche, convoca e
presiede l´ufficio di presidenza, la direzione e il consiglio nazionale e ne
stabilisce l´ordine del giorno. Procede alle nomine degli organi di partito e,
d´intesa con l´ufficio di presidenza, decide secondo le modalità previste dallo
statuto". Non si poteva trovare una più sincera dichiarazione di
autocrazia.
Conosco
già alcune risposte. Non si vuole alterare la Costituzione, ma soltanto rendere
più efficiente l´azione di governo e più fluidi i regolamenti parlamentari. Non
lasciamoci ingannare da queste giravolte. Si dice che, reso più rapido l´iter
parlamentare delle proposte del governo, verrà ridotto il ricorso ai decreti
legge. Che non è una buona risposta, perché si accetta comunque la pretesa
del governo di non sottoporre a controlli adeguati le sue iniziative. E
perché ai guasti del presidenzialismo strisciante non si risponde con una sua
rassegnata accettazione, ma ripensando gli equilibri istituzionali, partendo da
una seria rivalutazione della funzione parlamentare che non può essere affidata
alle logore acrobazie di uno "statuto" concesso alle opposizioni (si rifletta
sugli effetti della recente riforma costituzionale francese, che ha determinato
l´assoluta opacità della legislazione chiusa nelle commissioni parlamentari e il
sistematico azzeramento degli spazi di iniziativa legislativa "garantiti"
all´opposizione). È tempo di contrappesi forti.
Si torna così al tema della comunicazione. L´ipotesi del sondaggio permanente
dei cittadini dà l´illusione della sovranità e la sostanza della democrazia
plebiscitaria. È una ipotesi insieme pericolosa e vecchia, se appena si rivolge
lo sguardo ai diversi tentativi di far sì che i cittadini, consultati anche
elettronicamente, non siano ridotti a "carne da sondaggio", ma possano essere
soggetti attivi e consapevoli. Il ben diverso uso delle tecnologie e delle reti
sociali da parte di Obama, e non da lui soltanto, dovrebbe indurre a riflessioni
meno rozze. Ma delle impervie vie della democrazia elettronica, fuori dal
populismo, converrà parlare più distesamente.
Stefano Rodotà Repubblica 24.4.09