Il popolo degli ultimi
La rivolta dei diseredati d'Italia costretti nei
campi dalle mafie
È la rivolta degli ultimi, la rivolta dei neri che vagano per la nostra Italia.
Quelli che si spostano
sempre, che sono in movimento perenne. Stagione dopo stagione, mese dopo mese e
campo dopo
campo. Per raccogliere arance o uva, olive o pomodori. Vivono per la terra e
vivono nella terra.
Senza una casa, senza niente. A settembre erano in Sicilia, intorno alle vigne
di Marsala. A
novembre erano in Puglia fra gli ulivi più belli del Mediterraneo. A primavera
migreranno in
Campania a spezzarsi la schiena negli orti. Oggi erano qui: nella Piana dove è
padrona la mafia più
feroce del mondo.
Sono ghaneani, sudanesi, ivoriani, senegalesi. Vengono dal Togo, dalla
Mauritania, dal Congo. Ma
da anni sono tutti ‘italiani'. Per sopravvivere. Per resistere. Per sfamarsi.
Ogni giorno riescono a
prendere quasi 20 euro, per dodici anche quattordici ore piegati in due a
raccogliere le arance più
profumate della Penisola e i mandarini - le clementine - più dolci.
Dicono che sono tremila, qualche volta diventano quattromila e
forse anche di più. A Rosarno i
calabresi sono appena in quindicimila. Quasi il novanta per cento del
popolo nero che si trasporta
come gli animali in branco non ha ancora trent'anni. Sono uomini, solo uomini.
Gli ultimi sono ultimi perché non hanno mai avuto un tetto tutto per loro.
Dormono nelle fabbriche
abbandonate della Calabria degli sperperi e delle ruberie di mafia e di Stato.
Scheletri in mezzo al
nulla. Si accampano fra i pilastri arrugginiti di cemento sulla costa, nelle
masserie, in riva al mare.
Rosarno è come Castelvolturno. Come Campobello di Mazara. Come tutta
l'Italia che hanno sempre
conosciuto. Il campo e il sonno.
È dal 1992 che vengono in questa Piana quando la zagara, il fiore dell'arancio,
stordisce con il suo
profumo. Non hanno mai freddo e non hanno mai caldo. Non hanno mai un contratto.
I ‘caporali' li
prendono all'alba sui furgoncini, come al mercato del bestiame scelgono i più
forti.
Ogni 20 euro guadagnati ce ne sono 5 per loro: per i
soprastanti che li fanno lavorare. È il pizzo che si fanno
pagare i miserabili. E poi loro, per tre o quattro settimane racimolano il loro
gruzzolo per non
morire.
Non hanno documenti, non hanno passato. Solo la giornata conta: la giornata nel
giardino di aranci.
Quelli del Magreb hanno trovato sette case pericolanti fuori dal paese, sulla
strada per San
Ferdinando. I sudanesi stanno da un'altra parte, sotto un grande tendone dove
hanno sistemato i
sedili squarciati di vecchie auto e i copertoni di un camion come comodini. E i
senegalesi stanno
ancora più in là, vicino all'inceneritore, in uno stabilimento che un tempo
raffinava l'olio d'oliva. «Io
dormo qui», raccontava un anno fa Stephan, un ragazzino di vent'anni. Qui è
l'oblò di un silos dove
una volta conservavano l'olio. Un cilindro metallico dove Stephan ha portato
tutta la sua vita: la
coperta, un paio di scarpe, un corano, un fornello dove ogni tre o quattro sere
riesce a far cuocere
qualche pezzo di agnello e un pomodoro. Stephan non ha acqua. Stephan non ha un
bagno. Ce ne
sono tanti come lui acquartierati anche verso Gioia Tauro e il suo porto, altri
si sono dispersi verso
Rizziconi.
Tutti hanno visto per la prima volta l'Italia dagli scogli di
Lampedusa. Imbarcati come merce ad Al
Zuwara, nella Libia più vicina alla Sicilia. E sbarcati come clandestini in
Europa. Ci sono i neri più
fortunati, quelli che hanno trovato un capannone come tetto per la notte. Ogni
capannone ha una
scritta di vernice che ricorda il luogo di partenza di ogni gruppo: Dakar,
Rabat, Fes, Mombasa. Nei
capannoni i letti sono di cartone. Anche Yasser ha il suo letto di cartone
fradicio. L'aveva in Puglia
due mesi fa, ce l'ha qui a Rosarno. «Ci dormo poco», racconta. All'alba è già
fra gli aranceti. E solo
al tramonto torna nel capannone dove c'è la scritta Casablanca. E dice:
«Vivo nella paura, la paura
di far sapere alla mia famiglia come vivo qui in Europa».
È da quasi vent'anni che il popolo degli ultimi vaga di terra in terra per
l'Italia. Nel silenzio,
nell'indifferenza. Nessuno lo dice mai chiaramente ma sono le ‘ndrine, le
famiglie della mafia
calabrese, che più di tutte succhiano il sangue agli ultimi. Le ‘ndrine che
hanno le arance, che hanno
tutto nella Piana. I mafiosi li aspettano al passo, dopo Natale. Quando è tempo
di raccolta.
Attilio Bolzoni la Repubblica 8
gennaio 2010