IL POMODORO GLOBALE CHE AFFAMA IL MONDO

 A cosa pensate quando sentite le parole “mercato globale”? Automobili, computer, telefonini, blue jeans? Dimenticate qualcosa: il riso, il grano, il mais... pratica­mente tutto quel che mangiamo. I prodotti agricoli fanno parte ormai a tutti gli effetti del mercato globale, e pazienza se i jeans arrivano dal produttore al consumatore molto più in for­ma e con le caratteristiche origi­narie ancora in ordine. Ma non è solo questo il vantaggio dei jeans sui pomodori: c’è anche il fatto che i jeans beneficiano di regole certe e dedicate, mentre i prodotti agricoli non hanno questo privilegio. Il che, unita­mente al fallimento degli ultimi negoziati internazionali ci porta a ritrovarci oggi con un problema che ad ogni tentativo di analisi si frantuma e si moltiplica in tanti cocci che rischiamo di non saper ricomporre.

Le regole della globalizzazione applicate all’agricoltura hanno dato risultati perversi e l’osservatore non specializzato rischia la vertigine ogni volta che prova a confrontarsi con una situazione che - a suon di “allarmi” - arriva sui giornali spesso frammentata. Proviamo a fare un pò d’ordine.

1) L’agricoltura familiare e locale non è stata valorizzata, grazie a scelte consapevolmente rapaci che hanno preferito incentivare l’agricoltura orientata al mercato.

È una prima cesura importante. L’agricoltura serve a produrre alimenti da servire in tavola o commodities, oggetti di speculazione in borsa? E’ una scelta importante ed è stata privilegiata la seconda opzione. Se L’agricoltura produce roba da vendere, allora produce per coloro che hanno i soldi per com­prarsela. Solo che devono man­giare tutti, anche quelli che soldi non ne hanno. La risposta (sbagliata) è stata incrementare ulteriormente la produzione di cibo (peraltro di scarsa qualità) da vendere, nella speran­za che avrebbe potuto soddisfare le esigenze di chi non aveva soldi per comprarlo. Ma chi non ha soldi non ha soldi, e non può comprare nulla. Potrebbe invece, con un po’ di terra e un po’ di semi, col­tivare. Ma a tal fine bisognava privilegiare l’agricoltura di piccola scala.

2) Quel modo di produrre cibo ha creato una serie di danni e richiede grandissimi input di ener­gia. Allo stesso modo si comporta­no la maggior parte delle attività umane, produttive o no, che si sono sviluppate nel corso dell’ulti­mo secolo. Il risultato è stato da un lato l’aumento dell’inquinamento, dall’altro l’esaurimento delle scorte di carburante fossile, petrolio in primis.

La risposta (sbagliata) è stata utilizzare le terre arabili per prodotti agricoli da trasformare in biocarburanti. Naturalmente sempre secondo le logiche della grande produzione. Così occorre energia fossile per produrre energia non fossile, che comunque, inquina. Inoltre, attraverso questo canale si insediano nei territori le colture geneticamente modificate. Dunque si sono ridotte le terre dedicate alla coltivazione (per il mercato) degli alimenti: e il mercato, ha leggi abbastanza mono­tone, che reagiscono alla contrazione delle quantità prodotte con l’aumento dei prezzi.

3) La straordinaria quantità di energia consumata e di inquina­mento, unita alle massicce deforestazioni, fa sì che ci sia troppa anidride carbonica in giro. Trop­pa rispetto a quella che le piante riescono a metabolizzare e a rispedire sotto terra, dove è bene che il carbonio riposi. Questa si­tuazione ha tra i suoi effetti un sovvertimento degli equilibri cli­matici del pianeta, con surriscaldamento dei mari, siccità o alluvioni al di fuori della norma, evoluzione troppo rapida delle tem­perature. Le colture non sono in grado di adeguarsi, perché l’agricoltura fatta per vendere ha reso le sementi molto uniformi, molto bisognose di assistenza. Le sementi dell’agricoltura tradizionale, hanno un’altissima variabilità interna che le rende più produttive in situazioni di emergenza. Ma l’agricoltura tradizionale e di sussistenza (che mira eminen­temente ad avere un raccolto, non una vendita) non è stata privilegiata dalle scelte politiche.

4) La situazione presenta da un lato prezzi molto alti dei cereali e dall’altro popolazioni molto po­vere che rischiano di entrare (o rientrare) nella spirale dell’insuf­ficienza alimentare.

La risposta (sbagliata) è: bisogna produrre ancora di più e quindi bisogna utilizzare gli Ogm. Ma si finge di ignorare due elementi chiave: il primo è che esiste già cibo sufficiente per tutti, anzi se ne spreca una grandissima quantità, ma le popolazioni più deboli non hanno il denaro necessario, e se anche ne produrremo di più con­tinueremo a tenerlo nei magazzini fino a quando non si presenterà qualcuno che, portafoglio alla mano, lo richiederà; il secondo è che gli Ogm hanno dimostrato di non avere una particolare attitu­dine produttiva. Producono più o meno come le colture normali. E soprattutto si riducono sostanzialmente a uno: il mais. A meno di non voler inaugurare una nuo­va stagione di pellagra ad alta tecnologia, bisognerà rassegnarsi al pensiero di mangiare anche qualcos’altro. Oppure, visto che la maggior parte del mais, Ogm o no, viene usato per l’alimentazione animale, la visione è quella di un mondo futuro di straordinari mangiatori di carne? I fatturati delle multinazionali delle sementi e degli agrochimici aumentano a ritmi vertiginosi, alimentando nei più attenti osservatori il dub­bio che la loro principale preoc­cupazione non sia risolvere il problema della fame nel mondo. -

Detto tutto questo, noi privilegiati abitanti del mondo ricco, quello che ha così mirabilmente condotto il pianeta fino a questo punto, di cosa dobbiamo preoccuparci? Ho una proposta: proviamo a non preoccuparci per noi stessi. I nostri mercati continueranno a essere riforniti e se riusciremo ad avere un po’ di buonsenso negli acquisti, valorizzando i prodotti locali, freschi e di stagione, anche il nostro portafoglio non ne uscirà devastato.

La preoccupazione che non destiniamo a noi stessi, proviamo a destinarla al resto del pianeta e agli abitanti che finora hanno subìto le scelte che privilegiavano il nostro stile di vita. Ricordate quella frase orribile? “Il nostro stile di vita non è negoziabile”.

Ebbene, cominciamo da lì.

Joseph Stiglitz      La Repubblica  14 maggio 2008