Il pogrom moderno


"Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case": proprio voi, telespettatori, lettori di giornali,
guardate e chiedetevi se sono esseri umani questa donna, quest´uomo e questo bambino che una
fotografia terribile ci ha mostrato caricati coi loro stracci sul pianale di un´Ape, in fuga davanti a
popoli ebbri di sangue. Così, con le parole di Primo Levi, avrebbe potuto e dovuto cominciare
qualunque reportage sugli eventi di Ponticelli se il giornalismo riuscisse sempre ad avere una
memoria lunga e una funzione civile, se non si riducesse talvolta a essere la registrazione muta di
orrori quotidiani o la feroce amplificazione di pregiudizi e razzismi diffusi. Là dove si alzano
ancora cumuli di immondizia le fiamme consumano ora baracche, materassi e stracci nelle tane
dove altri esseri umani hanno trovato un rifugio meno che bestiale.
La parola pogrom è uscita dalle rievocazioni storiche della Shoah per diventare realtà. Non è
nemmeno escluso che si possa alla fine scoprire che stavolta – per la prima volta – gli zingari hanno
cominciato a rubare bambini, come voleva il pregiudizio di quell´Italia contadina che aveva tanti
figli e non conosceva altra ricchezza che la sua prole. Ma c´è un´altra prima volta, questa certa e
indiscutibile, che riguarda noi, gli italiani. Da oggi la parola «pogrom» ha cessato di indicare solo
tragedie di altri tempi e di altri popoli per diventare la definizione di atti compiuti da folle di
italiani.
Dobbiamo capire perché: e non ci aiutano le grida di incoraggiamento alle folle inferocite che
giungono quasi da ogni parte politica. Bisognerebbe che qualcuno facesse un esame pacato di quel
che è accaduto nelle nostre città e in quella vasta, informe e desolata periferia in cui è stata
trasformata tanta parte del suolo della penisola. Come tutti sanno, la mercificazione dei suoli
edificabili è stata una fonte essenziale per risolvere i problemi di bilancio delle amministrazioni
pubbliche. Chi doveva pensare a provvedere di luoghi vivibili gli emarginati, gli immigrati, i residui
gruppi umani non stanziali, ha fatto tutt´altro. Una frazione crescente di umanità abita oggi in Italia
sotto i ponti dei fiumi e delle autostrade, vicino alle discariche, in contesti di discarica obbligata,
senza acqua corrente, con stufe di fortuna. Qualcuno forse ricorda ancora altri bambini oltre a quelli
«rubati» dai rom – i figli di famiglie rom morti nei roghi provocati da stufe occasionali. E ci sono
altre storie che hanno un sapore tristemente familiare: quella del bambino rom che non vuole più
andare a scuola perché i compagni lo escludono dal gruppo e dicono che è sporco, che puzza. Anche
per gli ebrei dei secoli scorsi si diceva che fossero sporchi e riconoscibili dall´odore: ma lo dicevano
coloro che prima li avevano chiusi negli spazi stretti e senza acqua dei ghetti.
Ma il problema in assoluto più grave è un altro: come e perché gli italiani sono diventati razzisti?
Come e quando le autorità di governo prenderanno iniziative serie per l´integrazione civile e per la
tutela giuridica di tutti gli abitanti del paese? Per ora, si assiste solo a una gara a chi grida di più, a
chi trova le parole più minacciose contro gli sventurati, contro i dannati della terra. E´ una raffica di
provvedimenti di polizia, veri o ventilati, una gara in cui sono impegnati amministratori locali e
poteri centrali di ogni colore e che sarebbe ridicola se non fosse tragica per gli effetti di insicurezza
e di violenza che provoca. Siamo già alle ronde. Aspettiamo l´arrivo degli squadroni della morte e
delle polizie fai-da-te.
Certo, se lo sguardo si ferma non su quella fotografia ma sulle altre che le fanno dissonante
compagnia sulle prime pagine – quelle scattate nelle aule del Parlamento – ci sarebbe di che
rallegrarsi. Non più risse nel Palazzo: anzi un venticello dolce di mutuo rispetto tra maggioranza e
opposizione, un gusto della correttezza, uno scimmiottamento del perfetto stile anglosassone che
fanno pensare a quelle caricature dei nostri vezzi provinciali in cui eccelleva Alberto Sordi. Di fatto
nel Palazzo circola un´aria di intesa e di pace che riscalda il cuore: il governo e la sua ombra
camminano lungo la stessa linea di luce, come si conviene a un paese che ha una coscienza non più
divisa. E tuttavia, è spontaneo per chi ha una memoria lunga riflettere sulla opposizione speculare
tra l´Italia nuova, quella della pace nei palazzi del potere e della guerra tra poveri, e l´Italia antica,
quella della durissima lotta tra partiti inconciliabili e dello spirito di solidarietà diffuso in una
società memore della sua storia e delle sue radici popolari. Oggi il Palazzo e la Piazza appaiono
ancora una volta divisi, ma la loro divisione è di tipo insolito e inquietante. Diceva Francesco
Guicciardini della Firenze del ´500 che «spesso tra il palazzo e la piazza c´è una nebbia sì folta o
uno muro sì grosso che...tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o della ragione perché lo fa,
quanto delle cose che si fanno in India».
Oggi ancora una volta la scena italiana è divisa tra il palazzo e la piazza. Ma se allora era il popolo
che non vedeva ciò che facevano i potenti nel palazzo, oggi sono i potenti che sembrano non vedere
quel che accade nelle piazze e nelle periferie di questo nostro paese. O forse lo vedono: forse il
pensiero nascosto dietro tutto quel fair play è che conviene a chi sta sul ponte di comando lasciare
che la violenza scatenata dal malgoverno sia incanalata contro i soliti capri espiatori.

 

Adriano Prosperi       la Repubblica  16 maggio 2008