PIU' UMILI CON I LAICI
Come avevamo più volte paventato e cercato di scongiurare anche da queste colonne, è ormai
iniziata una nuova stagione nei rapporti tra i credenti cristiani e i cosiddetti «laici», cioè non
cristiani, in Italia. Da un confronto, un dialogo, comunque un clima in cui scarse erano le diffidenze
reciproche, siamo passati a una stagione di aperto conflitto, di non ascolto, di polemica e a volte a
situazioni di intolleranza, fino al disprezzo dell'altro e al non riconoscimento di quelle capacità di
cui ogni essere umano è dotato e che lo fanno appunto tale: la capacità del bene e del male, la
capacità di avere e di ritemprare un'etica, la capacità di custodire e vivere una vita interiore o
spirituale.
La situazione attuale è grave e forse stiamo già vivendo uno scontro: non il conflitto tra Islam e
Occidente cristiano profetizzato da Huntington, ma uno scontro all'interno delle nostre società
europee, uno scontro non sulla fede o sulla cultura, ma sulla morale, sull'etica. Pare sempre più
difficile ormai che lo Stato possa legiferare tenendo conto di tutte le componenti culturali della
nostra società plurale, e sembra che le posizioni religiose possano essere lette solo come
fondamentaliste, settarie, e quelle dei laici, per converso, come nichiliste e incapaci di affermare
valori umani. Certamente alcuni eventi recenti, come la mancata presa di parola di Benedetto XVI
all'inaugurazione dell'anno accademico all'Università La Sapienza a Roma, pesano e peseranno
proprio sulla possibilità di confronto e di dialogo: comunque occorrerà lavorare con serietà,
impegnarsi a fondo affinché questa polemica cessi e lasci spazio all'ascolto reciproco.
È anche vero che negli ultimi mesi sono stati pubblicati numerosi libri e pamphlet contro i cristiani,
e i cattolici in particolare, che hanno indotto alcuni di questi ultimi a sentirsi assediati e osteggiati,
ma un cristiano autentico non teme queste schermaglie che pur lo rattristano. Ci sono tra i non
cristiani, tra i «laici», grandi spiriti capaci di autenticità, di ricerca, di passione per l'uomo che
devono restare interlocutori dei cristiani. La loro preoccupazione per la laicità è passione per la
polis, per la sua edificazione nella convivenza, e io ritengo che siano un grande aiuto per noi
cristiani anche in vista di una purificazione della nostra fede, di un'autocritica necessaria per non
cedere alla seduzione degli idoli «religiosi»: è una possibilità di cercare insieme ciò che è bene per
l'uomo e per la società. Diversi di questi laici, pur restando autenticamente tali, hanno saputo essere
eloquenti sui media e prendere le distanze da quei «militanti» inclini a denigrare la fede, il
cristianesimo e le religioni.
In vista di un'auspicata ripresa del dialogo, pur sapendo che i giorni sono cattivi perché parole come
dialogo, confronto, ascolto reciproco sono diventate anche in ambito cristiano «espressioni di cui
diffidare», credo che i cristiani dovrebbero nutrire alcune preoccupazioni. La prima è quella della
comunicazione: oggi molti messaggi che vengono da figure ecclesiali rappresentative sembrano non
essere comprese e registrano un'immediata non ricezione da parte di molti, soprattutto non cattolici.
Per una comunicazione vera ed efficace occorre che colui che riceve il messaggio sia messo in
condizione di recepirlo correttamente; ma se la formulazione del messaggio pone problemi, se non
spiega sufficientemente, se non avviene nel momento adeguato, se addirittura si lascia affiancare o
si compiace della solidarietà di altre emittenti che hanno interessi diversi da quelli della fede, allora
tutto è davvero minacciato. Sovente registriamo questa traiettoria che disorienta: emissione di una
parola, reazione e giudizio negativi, tentativo di chiarimento da parte dell'emittente con lagnanze
per la mancata ricezione... Eppure la celebre formula di McLuhan - «anche il medium è messaggio»
- dovrebbe pur insegnare qualcosa.
Sì, occorre prendersi cura non solo del contenuto del messaggio, ma della sua corretta ricezione: un
reale deficit di comunicazione finisce con l’approfondire sempre di più il solco tra cristianesimo e
cultura, questo solco che ormai da trent'anni è sotto osservazione da parte dei cristiani che cercano
di colmarlo con la costruzione di ponti di comunicazione e di confronto reciproco. Il fatto che la
gente cui ci si vorrebbe rivolgere non recepisce il messaggio o addirittura ne fa una lettura
stravolgente dovrebbe essere fonte di viva preoccupazione: l'incomunicabilità può dipendere non
solo dalla sordità di un interlocutore, ma anche dalla scelta di una lingua non idonea...
Legata alla questione della comunicazione c'è anche quella dello «stile»: tema fondamentale per chi
è cristiano. Nella vicenda di Gesù, come è stata narrata nei Vangeli, lo stile è importante quanto il
messaggio: chi conosce il Nuovo Testamento è consapevole dell'urgenza che l'annuncio sia
accompagnato da una testimonianza di vita, da un modo di agire conforme al messaggio che si
vuole comunicare. Nei Vangeli ritroviamo sulla bocca di Gesù più ammonimenti sullo stile di vita e
di predicazione dei discepoli - «amatevi come io vi ho amati ... imparate da me che sono mite e
umile di cuore ... non fate come gli ipocriti ... non così è tra voi...» - che non sul contenuto del
messaggio, che è sempre semplice, sintetico, preciso.
Dal Concilio Vaticano II i cattolici hanno tratto un insegnamento non sul contenuto della fede - solo
chi è sprovveduto di senso ecclesiale o incerto nella fede può pensare che la fede sia cambiata nella
Chiesa! - ma soprattutto sullo stile: stile dello stare dei cristiani in mezzo agli altri uomini, stile nel
partecipare alla vita della polis, stile nell'attuare l'evangelizzazione e la missione, stile nell'incontro
con i credenti in altre religioni o con i non credenti. E questo non è affatto privilegiare la forma
rispetto al contenuto, non è badare alle apparenze anziché alla sostanza, né tanto meno pensare che
si tratti di addolcire una pillola amara, bensì percepire che dal «come» viene annunciata la «buona
notizia» dipende la stessa credibilità dell'annuncio. Il Concilio ha voluto proprio rinnovare questa
credibilità: per essere percepito come meritevole di fiducia, affidabile, il messaggio di Gesù deve
essere vissuto da chi lo predica, deve essere accompagnato da un agire coerente, disinteressato,
gratuito, deve essere animato dall'amore per l'uomo e non dalla ricerca di potere, deve essere
proclamato lasciando nella libertà gli ascoltatori, senza imposizioni e senza pressioni, con mezzi e
atteggiamenti conformi a quelli usati da Gesù stesso e dalla Chiesa nascente.
Lo stile con cui il cristiano sta nella compagnia degli uomini è determinante: da esso dipende la
fede stessa, perché non si può annunciare un Gesù che racconta Dio nella mitezza, nell'umiltà, nella
misericordia e farlo con stile arrogante, con toni forti o addirittura con atteggiamenti mondani che
appartengono a stagioni della politica o della militanza sociale.
Qua e là emergono statistiche e dati che testimonierebbero un calo di fiducia nella Chiesa: non
crediamo che la fiducia autentica sia soggetta a interpretazioni facili, a sondaggi, a sbalzi
improvvisi; ma resta vero che siamo in una società che, ci piaccia o no, guarda soprattutto
all'immagine e questa deve molto allo stile. Da qui l'esigenza di vigilanza da parte dei cristiani, da
qui una sana preoccupazione riguardo al «volto» di Gesù e della Chiesa che riusciamo a tratteggiare
per i nostri contemporanei. I cristiani non devono temere né essere angosciati per il rischio di essere
letti come minoranza: ricordiamoci che secondo la Bibbia indire un censimento per contarsi non è
gradito a Dio. La fede non è questione di numeri, ma di convinzione profonda, di grandezza
d'animo, ed è ciò che «fa» il cristiano autentico e la sua parola credibile.
Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose. “La Stampa” 10/02/2008