Pio XI e quel razzismo d'Africa
Archivi Nuovi
documenti provano le compiacenze della Santa Sede verso la politica di Mussolini
in Etiopia
Nel '37 appoggiò la legge che
vietava i rapporti fra italiani e «faccette nere»
La «Giornata della Fede» è rimasta a lungo iscritta non soltanto nelle memorie,
ma anche sui corpi (sulle mani) degli italiani. Il 18 dicembre 1935, in risposta
alle sanzioni decretate contro il regime di Mussolini dalla Società delle
Nazioni per l'invasione dell'Etiopia, le coppie d'Italia furono chiamate a
sostenere lo sforzo bellico del fascismo donando «oro alla patria»: contribuendo
alle spese di guerra attraverso l'offerta degli anelli nuziali. Fu un gigantesco
rituale di massa, celebrato a Roma come nel più minuscolo comune del Regno.
Nella sola capitale, oltre centomila fedi d'oro vennero deposte sull'Altare
della Patria da brave donne italiane — per prime, la regina Elena e donna
Rachele — che orgogliosamente si misero al dito, in cambio, fedi d'acciaio.
La Chiesa cattolica collaborò attivamente alla raccolta dell'oro. Con lettere
pastorali, omelie, fogli diocesani, gran parte del clero fece propri gli slogan
della pubblicistica di regime. Già il 4 dicembre, con due settimane di anticipo
sulla Giornata della Fede, Mussolini poté ordinare ai prefetti di esprimere ai
vescovi di ogni provincia la piena soddisfazione del governo fascista.
Il sostegno della Chiesa riuscì allora tanto più utile al regime in quanto
la vera nuziale, per la maggioranza degli italiani, era anzitutto un segnacolo
religioso: valeva da promemoria del patto matrimoniale stretto dalla coppia
presso un altare, era il materico simbolo di un sacramento.
Se il mondo cattolico poté aderire massicciamente alla guerra di Mussolini in
Africa, fu anche perché l'impresa d'Etiopia traduceva il mito fascista della
romanità nei codici di una cultura missionaria. I soldati del
Littorio promettevano di consegnare la fede romana a popoli semibarbari: la
«crociata» in Abissinia veniva combattuta affinché trionfassero, insieme, le
ragioni imperiali del fascismo e quelle universali del cattolicesimo.
Nondimeno,
gli storici più avvertiti hanno iniziato da qualche tempo — sulla scorta dei
documenti d'archivio relativi al papato di Pio XI, accessibili dal 2006 — a
sfumare l'immagine troppo nitida e netta di una Chiesa compattamente schierata
dietro le legioni del Duce. In particolare gli studi di Lucia Ceci, docente di
Storia contemporanea all'università di Roma Tor Vergata, hanno documentato
sforzi notevoli della Santa Sede, e di Pio XI in persona, per fermare la
macchina bellica di Mussolini.
Alla vigilia della dichiarazione di guerra, Pio XI aveva preparato una lettera
privata per il Duce dove gli chiedeva, in sostanza, di rinunciare all'invasione
dell'Etiopia. Papa Ratti aveva poi deciso di non inoltrare la missiva, ma fino
all'ultimo aveva fatto pressioni su Mussolini «per non mettere l'Italia in stato
di peccato mortale». Né le gerarchie vaticane tacquero del tutto a mobilitazione
avvenuta, dopo il fatidico discorso mussoliniano del 2 ottobre 1935. Estensore
materiale della bozza di lettera di Pio XI al Duce, monsignor Domenico
Tardini affidò a un documento riservato per il papa l'espressione del proprio
disgusto nei confronti del «clero esaltato e guerrafondaio». Mentre la
Segreteria di Stato diffuse, il 30 novembre, precise istruzioni «da impartire
verbalmente ai vescovi d'Italia»: durante la Giornata della Fede, si limitassero
i vescovi al campo della preghiera, badando di «non esprimere giudizi sul
diritto e la giustizia dell'impresa abissina».
Ora che conosciamo meglio il travaglio della Chiesa di Pio XI a fronte
dell'avventura imperiale di Mussolini, a maggior ragione restiamo colpiti da
nuovi documenti inediti che Lucia Ceci ha rinvenuto nell'Archivio segreto
vaticano e che saranno da lei presentati, in questi giorni, a un convegno della
Fondazione Salvatorelli. Sono materiali più tardi, relativi all'estate del 1937:
quando ormai da un anno si è consumata la presa militare di Addis Abeba, ed è
stato proclamato un impero del quale Pio XI (a dispetto delle tormentate sue
iniziative diplomatiche del '35) ha creduto bene di rallegrarsi pubblicamente.
Dopo il disordine della guerra, in Africa orientale italiana è venuto il momento
di fare ordine. Ed è venuto il momento di farlo a partire dalle alcove, dove
troppi soldati e troppi coloni si consolano della distanza da casa fra le
braccia amorevoli di qualche «faccetta nera». In Africa orientale italiana è
suonata, insomma, l'ora di una legislazione sulla razza.
Dietro impulso del ministro delle Colonie, Alessandro Lessona, il regime ha
appena introdotto la «legge sul madamato», che punisce con la reclusione da uno
a cinque anni il concubinato di un cittadino italiano con «una persona suddita
dell'Africa orientale». Adesso — siamo ai primi d'agosto del '37 — il ministro
Lessona sta chiedendo al nunzio vaticano in Italia, Francesco Borgongini Duca,
un appoggio diretto della Santa Sede alla legislazione razziale, per scongiurare
il rischio concreto di una proliferazione dei meticci. Infatti,
«disgraziatamente », i figli nati dall'amplesso di uomini bianchi con donne nere
«portano sommati i difetti e non i pregi delle due razze ». Perciò
l'Italia fascista invoca il contributo della Chiesa cattolica nel «dissuadere
unioni tra persone di diversa razza»: «appunto per evitare le nascite dei
mulatti, che sono dei degenerati».
Risalendo per via gerarchica, la richiesta di Lessona approda sulla scrivania di
Pio XI, che sollecita un avviso del cardinale Domenico Jorio, prefetto della
Congregazione dei sacramenti. E il 24 agosto 1937, il cardinale Jorio mette per
iscritto, all'attenzione di Papa Ratti, un parere sconcertante rispetto al senso
comune della morale cattolica. Sì, «a mezzo dei Missionari», la Chiesa
avrebbe effettivamente potuto, anzi avrebbe dovuto collaborare — «nei giusti
limiti» del diritto canonico — alla campagna per la «sanità della razza».
Le «ibride unioni» andavano impedite «per i saggi motivi igienico- sociali
intesi dallo Stato»: «la sconvenienza di un coniugio fra un bianco e un negro»,
e «le accresciute deficienze morali nel carattere della prole nascitura». Segue
l'approvazione papale del documento firmato dal cardinale Jorio, trasmesso alla
nunziatura d'Italia già il 31 agosto di quel 1937: per la gioia del ministro
Lessona, «lieto delle sagge disposizioni della Santa Sede». Spolverata dagli
archivi vaticani grazie alle fondamentali ricerche di Lucia Ceci, questa non è
che una pagina fra le tante, nell'alterna vicenda del rapporto fra il Vaticano
degli anni Trenta e i regimi razzisti. Ma è una pagina che avremmo preferito non
leggere.
Sergio Luzzatto Corriere della Sera 5.11.08