PIETA’ PER LA LOGICA

 

Come si può scegliere la vita se la morte non è un’opzione? Quando l’ideologia corrompe il linguaggio non c’è libertà. Si diffonde l’arte di uccidere il senso e aumentare il rumore.

Quando la politica si impadronisce del linguaggio, sono guai per la logica e la morale. Ho sentito dire che la legge deve garantire la libertà di scegliere la vita, e non di scegliere la morte. E come si fa a “scegliere” la vita, se la morte non è un’opzione? Questo è un esempio dell’arte minima e onnipresente nei pubblici dibattiti, oggi, di uccidere il senso e aumentare il rumore, fosse pure quello di un flauto suadente, in luogo di una frase che non ha più senso. La vita! E quale, la vita di un fagio­o, di una mosca? Oh no, la vita di un uomo, naturalmente. Di un individuo... No, no, ho sentito dire, non dite individuo, dite “persona”.

Perché non “individuo”? Un grandissimo filosofo cristiano, diceva che l’individuo è il fine ultimo del creato, e la prima intenzione di Dio. Ma se si dice individuo subito scatta il mostro “individualismo”, e occorre allo­ra scatenargli addosso La Solidarietà. Ho sentito dire che a decidere della vita o della morte di un individuo dev’essere (“deve”? e come mai? Del dovere di chi si parla? Conoscete doveri che non siano doveri di singole persone?) La Solidarietà.

C’è una frase più insensata, e insieme più inquietante? Come fa una virtù sociale a decidere? E se si vuol dire che la gente deve prendere deci­ioni in base alla solidarietà, quale gente deve prenderle, e le decisioni di chi, soprattutto? Anche le mie? E se per caso si tratta dei miei ideali, condivisi magari da tutti quelli che amo, con chi diavolo sarà solidale la gente che vi si oppone? Con se stessa, forse? Quale solidarietà vorrà tutelare la “legge”?

Ma lasciamo i preamboli logici e veniamo al caso. Una donna ha le gambe in cancrena, e la sua vita se la vuol tenere così, finché dura: senza gambe non vuole vivere. Speriamo che nessuno le rifiuti i sedativi, che l’accompagneranno dolcemente al morire. Bene: abbiamo tutti imparato che c’è addirittura nella costituzione un punto chiaro - la cui logica ed etica è semplicissima - nessuno può imporre a un altro la cura che l’altro non vuole, né di tenersi artificialmente la vita che l’altro non desidera più.

Ho sentito medici, politici e monsignori sostenere che il caso Welby era diverso. Come mai? Perché Welby non poteva levarsi la “cura” di dosso da solo? Sospetto che neanche quella povera donna sia stata in grado di andarsene da sola. Perché non era una cura, un trattamento per tenerlo in vita? E cos’era, allora? Amici, è questo genere di  insulti alla logica in funzione di un principio ideologico, fosse pure ritenuto in buona fede, che ferisce chi vi ama e vi è grato per la Vostra difesa di un Regno della Grazia. Occorre che la ragione sia onorata e adulta - cioè laica - perché davvero viva un regno come quello oltre la ragione, non contro di essa. «Cattolico», universale, cioè, come lo spirito.

Welby aveva anche una sua battaglia, un suo ideale, e per questo ha combattuto. Anche combattere per i propri ideali è moralmente lecito quando non comporta danni a terzi. Al punto che si può anche dare la vita per questi ideali: per la propria fede, ad esempio, o per la verità. Dunque non è vero che la vita di una persona è il massimo valore di questa stessa persona. Anzi, che non lo sia, è ciò che la definisce come persona: la capacità di trascendere se stessi, che chiamiamo spirito. Lo spirito vale più della vita, per una persona che non sia proprio un Don Abbondio; fossero pure, i suoi valori, quelli di un libertario, o di un pagano.

Welby ha lottato per i valori del libero arbitrio e della trasparenza, puntando il dito su un vuoto legislativo che costringe a fare di nascosto ciò che il libero arbitrio e l’umanità dettano. Si può concordare o no sull’opportunità di farlo: in ogni caso questa era la sua battaglia. Ma cosa direste se un medico, se un sacerdote, di fronte a uno che combatte la sua battaglia, invece di rispondere da medico, o da sacerdote, facendo quello che richiesto loro, rispondessero in funzione delle battaglie combattute? Se un medico ragionasse così: di solito la mia arte è al servizio del paziente come tale; ma siccome questo fa una battaglia ideologica, allora non lo aiuto più e mi metto a fare una battaglia ideologica anch’io? Eppure ho incontrato medici che hanno fatto questo.

Ma questo distrugge la verità che è nelle professioni, l’onestà che è nelle arti. Peggio ancora: quella dell’ideologia è una malattia che sta divorando la nostra lingua. Ci sono parole sequestrate dalla politica. Parole che nessuno può più liberamente usare, nonostante si sforzi di farlo con la massima definitezza e chiarezza possibile, senza essere subito schierato, catalogato e di conseguenza aggredito o applaudito. Ma un Paese che lascia il verme dell’ideologia corrompere la vita del linguaggio, uccide la libertà di chi parla, e la sua responsabilità di fronte al vero. Quanta morte dello spirito, in questa battaglia “per la vita”.

 

Roberta De Ponticelli –     Sole 24 Ore 31.12.06