Il piccolo razzismo che l'Italia non vede


Il giorno in cui H., cittadino tunisino con regolare permesso di soggiorno, chiese di partecipare al
bando comunale da sessanta licenze per taxi, scoprì che tassisti, qui da noi, si diventa solo se
cittadini italiani. Il giorno in cui F. ed L., coppia nigeriana residente in Veneto, risposero a un
annuncio per cuochi, scoprirono che l´albergo che li cercava, di neri non ne voleva. E «non per una
questione di razzismo», gli venne detto dalla costernata direttrice della pensione, «perché in
giardino, ad esempio», lavoravano «da sempre solo i pachistani». Il giorno in cui S., deliziosa
adolescente napoletana, finì nella sala d´attesa di un pediatra di base di Roma accompagnata dal
padre, alto dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza, realizzò che insieme a lei
attendevano soltanto bambini dal colore della pelle diverso dal suo. E ne chiese conto: «Papà,
perché da quando ci siamo trasferiti a Roma siamo diventati così sfigati?».
Il Razzismo italiano è un «pensiero ordinario». Abita il pianerottolo dei condomini, le fermate
dell'autobus, i tavolini dei bar, i vagoni ferroviari. "Negro", una di quelle parole ormai pronunciate
con senso liberatorio nel lessico pubblico, non nelle barzellette. Volendo, da esporre sulle lavagne
del menù del giorno di qualche tavola calda, per allargare a una parte degli umani il divieto di
ingresso ai cani.
L´Italia Razzista è la geografia di un odio di prossimità, che nei primi dieci mesi di quest´anno ha
conosciuto picchi che non ricordava almeno dal 2005. Un odio «naturale», dunque apparentemente
invisibile, anche statisticamente, fino a quando non diventa fatto di sangue.
Il pestaggio di un
ragazzo ghanese in una caserma dei vigili urbani di Parma; il linciaggio di un cinese nella periferia
orientale di Roma; il rogo di un campo nomadi nel napoletano; la morte per spranga, a Milano, di
un cittadino italiano, ma con la pelle nera del Burkina Faso; l´aggressione di uno studente angolano
all´uscita di una discoteca nel genovese.
Dunque, cosa si muove davvero nella pancia del Paese?
Al quinto piano di Largo Chigi, 17, Roma, uffici della presidenza del Consiglio dei ministri,
Dipartimento per le pari opportunità, lavora da quattro anni un ufficio voluto dall´Europa la cui
esistenza, significativamente, l´Italia ignora. Si chiama «Unar» (Ufficio nazionale
antidiscriminazione razziale). Ha un numero verde (800 90 10 10) che raccoglie una media di 10mila segnalazioni l´anno, proteggendo l´identità di vittime e testimoni. È il database nazionale che misura la qualità e il grado della nostra febbre xenofoba. Arriva dove carabinieri e polizia non
arrivano. Perché arriva dove il disprezzo per il diverso non si fa reato e resta "solo" intollerabile
violenza psicologica, aggressione verbale, esclusione ingiustificata dai diritti civili.


Nei primi nove mesi di quest´anno l´Ufficio ha accertato 247 casi di discriminazione razziale, con
una progressione che, verosimilmente, pareggerà nel 2008 il picco statistico raggiunto nel 2005.
Roma, gli hinterland lombardi e le principali città del Veneto si confermano le capitali
dell'intolleranza. I luoghi di lavoro, gli sportelli della pubblica amministrazione, i mezzi di trasporto
fotografano il perimetro privilegiato della xenofobia. Dove i cittadini dell´Est europeo contendono
lo scettro di nuovi Paria ai maghrebini.
In una relazione di 48 cartelle ("La discriminazione razziale in Italia nel 2007") che nelle prossime
settimane sarà consegnata alla Presidenza del Consiglio (e di cui trovate parte del dettaglio statistico
in queste pagine) si legge: «Il razzismo è diffuso, vago e, spesso, non tematizzato. La cifra degli
abusi è l´assoluta ordinarietà con cui vengono perpetrati. Gli autori sembra che si sentano
pienamente legittimati nel riservare trattamenti differenziati a seconda della nazionalità, dell´etnia o
del colore della pelle». Privo di ogni sovrastruttura propriamente ideologica, il razzismo italiano si
fa «senso comune». Appare impermeabile al contesto degli eventi e all´agenda politica (la curva
della discriminazione, almeno sotto l´aspetto statistico, non sembra mai aver risentito in questi 4
anni di elementi che pure avrebbero potuto influenzarla, come, ad esempio, atti terroristici di
matrice islamica). Procede al contrario per contagio in comunità urbane che si sentono
improvvisamente deprivate di ricchezza, sicurezza, futuro, attraverso «marcatori etnici» che si
alimentano di luoghi comuni o, come li definiscono gli addetti, "luoghi di specie". Dice Antonio
Giuliani, che dell´Unar è vicedirettore: «I romeni sono subentrati agli albanesi ereditandone nella
percezione collettiva gli stessi e identici tratti di "genere". Che sono poi quelli con cui viene
regolarmente marchiata ogni nuova comunità percepita come ostile: "Ci rubano il lavoro", "Ci
rubano in casa", "Stuprano le nostre donne". Dico di più: i nomadi, che nel nostro Paese non
arrivano a 400 mila e per il 50% sono cittadini italiani, sono spesso confusi con i romeni e vengono
vissuti come una comunità di milioni di individui. E dico questo perché questo è esattamente quello
che raccolgono i nostri operatori nel colloquio quotidiano con il Paese».
 

L´ordinarietà del pensiero razzista, la sua natura socialmente trasversale, e dunque la sua percepita
"inoffensività" e irrilevanza ha il suo corollario nella modesta consapevolezza che, a dispetto anche
dei recenti richiami del Capo dello Stato e del Pontefice, ne ha il Paese (prima ancora che la sua
classe dirigente).
Accade così che le statistiche del ministero dell´Interno ignorino la voce "crimini
di matrice razziale", perché quella "razzista" è un´aggravante che spetta alla magistratura contestare
e di cui si perde traccia nelle more dei processi penali. Accade che nei commissariati e nelle
caserme dei carabinieri di periferia nelle grandi città, il termometro della pressione xenofoba si
misuri non tanto nelle denunce presentate, ma in quelle che non possono essere accolte, perché
«fatti non costituenti reato». Come quella di un cittadino romeno, dirigente di azienda, che, arrivato
in un aeroporto del Veneto, si vede rifiutare il noleggio dell´auto che ha regolarmente prenotato
perché - spiega il gentile impiegato al bancone - il Paese da cui proviene «è in una black list» che
farebbe della Romania la patria dei furti d´auto e dei rumeni un popolo di ladri. O come quella di un
cittadino di un piccolo Comune del centro-Italia che si sveglia un mattino con nuovi cartelli stradali
che il sindaco ha voluto per impedire «la sosta anche temporanea dei nomadi».
La xenofobia lavora tanto più in profondità quanto più si fa odio di prossimità (è il caso del maggio
scorso al Pigneto). Disprezzo verso donne e uomini etnicamente diversi ma soprattutto socialmente
«troppo contigui» e numericamente non più esigui. Anche qui, le statistiche più aggiornate
sembrano confermare un´equazione empirica dell´intolleranza che vuole un Paese entrare in
sofferenza quando la percentuale di immigrazione supera la soglia del 3 per cento della popolazione
autoctona. In Italia, il Paese più vecchio (insieme al Giappone), dalla speranza di vita tra le più alte
al mondo e la fecondità tra le più basse, l´indice ha già raggiunto il 6 per cento. E se hanno ragione
le previsioni delle Nazioni Unite, tra vent´anni la percentuale raggiungerà il 16, con 11 milioni di
cittadini stranieri residenti.
Franco Pittau, filosofo, tra i maggiori studiosi europei dei fenomeni migratori e oggi componente
del comitato scientifico della Caritas che cura ogni anno il dossier sull´Immigrazione nel nostro Paese (il prossimo sarà presentato il 30 ottobre a Roma), dice: « È un cruccio che come cristiano non mi lascia più in pace. Se la storia ci impone di vivere insieme perché farci del male anziché provare a convivere? Bisogna abituare la gente a ragionare e non a gridare e a contrapporsi. Non
dico che la colpa è dei giornalisti o dei politici o degli uomini di cultura o di qualche altra categoria.
La colpa è di noi tutti. Rischiamo di diventare un paese incosciente che, anziché preparare la storia,
cerca di frenarla. Si può discutere di tutto, ma senza un´opposizione pregiudiziale allo straniero, a
ciò che è differente e fa comodo trasformare in un capro espiatorio. Alcuni atti rasentano la
cattiveria gratuita. Mi pare di essere agli albori del movimento dei lavoratori, quando la tutela
contro gli infortuni, il pagamento degli assegni familiari, l´assenza dal lavoro per parto venivano
ritenute pretese insensate contrarie all´ordine e al buon senso. Poi sappiamo come è andata
».
Se Pittau ha ragione, se cioè sarà la Storia ad avere ragione del «pensiero ordinario», l´aria che si
respira oggi dice che la strada non sarà né breve, né dritta, né indolore. I centri di ascolto dell´Unar
documentano che nel nord-Est del paese sono cominciati ad apparire, con sempre maggiore
frequenza, cartelli nei bar in cui si avverte che «gli immigrati non vengono serviti» (se ne è avuto
conferma ancora quattro giorni fa a Padova, alle «3 botti» di via Buonarroti, che annunciava il
divieto l´ingresso a «Negri, irregolari e pregiudicati»). E che nelle grandi città anche prendere un
autobus può diventare occasione di pubblica umiliazione, normalmente nel silenzio dei presenti.
Come ha avuto modo di raccontare T., madre tunisina di due bambini, di 1 e 3 anni. «Dovevo
prendere il pullman e, prima di salire, avevo chiesto all´autista se potevo entrare con il passeggino.
Mi aveva risposto infastidito che dovevo chiuderlo. Con i due bambini in braccio non potevo e così
ho promesso che lo avrei chiuso una volta salita. L´autista mi ha insultata. Mi ha gridato di
tornarmene da dove venivo. E non è ripartito finché non sono scesa». T., appoggiata dall´Unar, ha
fatto causa all´azienda dei trasporti. L´ha persa, perché non ha trovato uno solo dei passeggeri
disposto a testimoniare. In compenso ha incontrato di nuovo il conducente che l´aveva umiliata.
Dice T. che si è messo a ridere in modo minaccioso. «Prova ora a mandare un´altra lettera», le ha
detto.

 

Carlo Bonini      la Repubblica 25 ottobre 2008