Piccoli razzisti
crescono
La paura del diverso, che sfocia spesso nell’odio più cieco, è il filo rosso
lungo il quale si snodano
i diciassette capitoli del saggio di Gian Antonio Stella Negri froci giudei
& Co.L’eterna guerra
contro l’altro (Rizzoli, pp. 332, € 19,50), da oggi in libreria. L’autore
parte dall’ondata xenofoba
che percorre l’Italia e l’Europa per risalire alle radici dell’esclusivismo
etnico: il meccanismo
nefasto per cui ogni popolo tende presentarsi come artefice della civiltà, per
rovesciare sugli altri
— estranei, barbari, inferiori — tutte le colpe possibili. Infiniti sono i
bersagli di chi è ossessionato
dalla purezza: africani, arabi, ebrei, nomadi, cinesi, omosessuali. E non di
rado chi è stato vittima
del razzismo finisce per riversarlo su altri con la stessa brutalità. Un libro
istruttivo, che si chiude
con un impressionante «Stupidario dei fanatici».
Anticipiamo un brano del libro.
«Al centro del mondo», dicono certi vecchi di Rialto, «ghe semo noialtri: i
venessiani de Venessia.
Al de là del ponte de la Libertà, che porta in terraferma, ghe xè i campagnoli,
che i dise de esser
venessiani e de parlar venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli».
«Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: comaschi, bergamaschi, canadesi,
parigini, polacchi,
inglesi, valdostani... Tuti foresti. Al de là dell’Adriatico, sotto Trieste, ghe
xè i sciavi: gli slavi. E i
xingani: gli zingari. Sotto el Po ghe xè i napo’etani. Più sotto ancora dei napo’etani
ghe xè i mori:
neri, arabi, meticci... Tutti mori». Finché a Venezia, restituendo la visita
compiuta secoli prima da
Marco Polo, hanno cominciato ad arrivare i turisti orientali. Prima i
giapponesi, poi i coreani e
infine i cinesi. A quel punto, i vecchi veneziani non sapevano più come chiamare
questa nuova
gente. Finché hanno avuto l’illuminazione. E li hanno chiamati: «i sfogi». Le
sogliole. Per la faccia
gialla e schiacciata.
Questa idea di essere al centro del mondo, in realtà, l’abbiamo dentro
tutti. Da sempre. Ed è in
qualche modo alla base, quando viene stravolta e forzata, di ogni teoria
xenofoba. Tutti hanno
teorizzato la loro centralità.
Tutti. A partire da quelli che per i veneziani vivono
all’estrema periferia del pianeta: i cinesi. I quali,
al contrario, come dicono le parole stesse «Impero di mezzo», sono assolutamente
convinti, spiega
l’etnografo russo Mikhail Kryukov, da anni residente a Pechino e autore del
saggio Le origini delle
idee razziste nell’antichità e nel Medioevo, non ancora tradotto in Italia, che
il loro mondo sia «al
centro del Cielo e della Terra, dove le forze cosmiche sono in piena armonia».
È una fissazione, la pretesa di essere il cuore dell’«ecumene», cioè della
terra abitata. Gli ebrei si
considerano «il popolo eletto», gli egiziani sostengono che l’Egitto è «Um
ad-Dunia» cioè «la
madre del mondo», gli indiani sono convinti che il cuore del pianeta sia il
Gange, i musulmani che
sia la Ka’ba alla Mecca, gli africani occidentali che sia il Kilimangiaro. Ed è
così da sempre. I
romani vedevano la loro grande capitale come caput mundi e gli antichi
greci immaginavano il
mondo abitato come un cerchio al centro del quale, «a metà strada tra il sorgere
e il tramontare del
sole», si trovava l’Ellade e al centro dell’Ellade Delfi e al centro di Delfi la
pietra dell’omphalos,
l’ombelico del mondo.
Il guaio è quando questa prospettiva in qualche modo naturale si traduce
in una pretesa di
egemonia. Di superiorità. Di eccellenza razziale. Quando pretende di scegliersi
i vicini. O di
distribuire patenti di «purezza» etnica. Mario Borghezio, ad esempio, ha
detto al Parlamento
europeo, dove è da anni la punta di diamante della Lega Nord, di avere una spina
nel cuore:
«L’utopia di Orania, il piccolo fazzoletto di terra prescelto da un pugno di
afrikaner come nuova
patria indipendente dal Sudafrica multirazziale, ormai reso invivibile dal
razzismo e dalla
criminalità dei neri, è un esempio straordinario di amore per la libertà di
preservazione dell’identità
etnoculturale».
Anche in Europa, ha suggerito, «si potrebbe seguire l’esempio di questi
straordinari figli degli
antichi coloni boeri e 'ricolonizzare' i nostri territori ormai invasi da gente
di tutte le provenienze,
creando isole di libertà e di civiltà con il ritorno integrale ai nostri usi e
costumi e alle nostre
tradizioni, calpestati e cancellati dall’omologazione mondialista. Ho già preso
contatti con questi
'costruttori di libertà' perché il loro sogno di libertà è certo nel cuore di
molti, anche in Padania, che
come me non si rassegneranno a vivere nel clima alienante e degradato della
società multirazziale».
La «società multirazziale»? Ma chi l’ha creata, in Sudafrica, la «società
multirazziale»? I neri che
sono sopravvissuti alla decimazione dei colonialisti bianchi e sono tornati da
un paio di decenni a
governare (parzialmente) quelle che erano da migliaia di anni le loro terre? O i
bianchi arrivati nel
1652, cioè poco meno di due millenni più tardi rispetto allo sfondamento nella
Pianura Padana dei
romani che quelli come Borghezio ritengono ancora oggi degli intrusi
colonizzatori, al punto che
Umberto Bossi vorrebbe che il «mondo celtico ricordasse con un cippo, a Capo
Talamone » la
battaglia che «rese i padani schiavi dei romani»? Niente sintetizza meglio un
punto: il razzismo è
una questione di prospettiva. (...) Non si capiscono i cori negli stadi
contro i giocatori neri, il
dilagare di ostilità e disprezzo su Internet, il risveglio del demone
antisemita, le spedizioni
squadristiche contro gli omosessuali, i rimpianti di troppi politici per «i
metodi di Hitler», le
avanzate in tutta Europa dei partiti xenofobi, le milizie in divisa paranazista,
i pestaggi di disabili, le
rivolte veneziane contro gli «zingari» anche se sono veneti da secoli e fanno di
cognome Pavan, gli
omicidi di clochard bruciati per «ripulire» le città e gli inni immondi
alla purezza del sangue, se non
si parte dall’idea che sta manifestandosi una cosa insieme nuovissima e
vecchissima.
Dove l’urlo «Andate tutti a ’fanculo: negri, froci, zingari,
giudei & co!», come capita di leggere sui muri delle
città italiane e non solo, è lo spurgo di una società in crisi. Che ha paura di
tutto e nel calderone
delle sue insicurezze mette insieme tutto: la crisi economica, i marocchini, i
licenziamenti, gli
scippi, i banchieri ebrei, i campi rom, gli stupri, le nuove povertà, i negri, i
pidocchi e la tubercolosi
che «era sparita prima che arrivassero tutti quegli extracomunitari ». Una
società dove i più fragili, i
più angosciati, e quelli che spudoratamente cavalcano le paure dei più fragili e
dei più angosciati,
sospirano sognando ognuno la propria Orania. Una meravigliosa Orania ungherese
fatta solo di
ungheresi, una meravigliosa Orania slovacca fatta solo di slovacchi, una
meravigliosa Orania
fiamminga fatta solo di fiamminghi, una meravigliosa Orania padana fatta solo di
padani.
Ma che cos’è, Orania? È una specie di repubblichina privata fondata nel 1990,
mentre Nelson
Mandela usciva dalla galera in cui era stato cacciato oltre un quarto di secolo
prima, da un po’ di
famiglie boere che non volevano saperne di vivere nella società che si sarebbe
affermata dopo la
caduta dell’apartheid. Niente più panchine nei parchi vietate ai neri, niente
più cinema vietati ai
neri, niente più autobus vietati ai neri, niente più ascensori vietati ai neri e
così via. (...) «Il
genocidio dei boeri»: titolano oggi molti siti olandesi denunciando le
aggressioni ai bianchi da parte
di bande criminali di colore gonfie di odio razziale che da Durban a
Johannesburg sono responsabili
dal 1994 al 2009, secondo il quotidiano «Reformatorisch Dagblad», di oltre
tremila omicidi. Il
grande paradosso sudafricano, quello che mostra come la bestia razzista possa
presentarsi sotto
mille forme, è qui. I boeri, protagonisti di tante brutalità contro le
popolazioni indigene e oggi
vittime di troppe vendette, sono gli stessi boeri che furono vittime del primo
vero genocidio del XX
secolo. Perpetrato dagli inglesi che volevano liberarsi di quei bianchi africani
nati da un miscuglio di olandesi, francesi, tedeschi... (...)
È tutto, la memoria: tutto. È impossibile parlare
del razzismo di
oggi se non si ricorda il razzismo di ieri. Sull’uno e sull’altro fronte.
Non puoi raccontare gli assalti
ai campi rom se non ricordi secoli di pogrom, massacri ed editti da
Genova allo Jutland, dove l’11
novembre 1835 organizzarono addirittura, come si trattasse di fagiani, una
grande caccia al gitano.
Caccia che, come scrivono Donald Kenrick e Grattan Puxon ne Il destino degli
zingari, «fruttò
complessivamente un 'carniere' di oltre duecentosessanta uomini, donne e
bambini». Non puoi
raccontare della ripresa di un crescente odio antiebraico, spesso mascherato da
critica al governo
israeliano (critica, questa sì, legittima) senza ricordare quanto disse Primo
Levi in una lontana
intervista al «Manifesto»: «L’antisemitismo è un Proteo». Può assumere come
Proteo una forma o
un’altra, ma alla fine si ripresenta. E va riconosciuto sotto le sue nuove
spoglie. Così com’è
impossibile capire il razzismo se non si ricorda che ci sono tanti razzismi.
Anche tra bianchi e
bianchi, tra neri e neri, tra gialli e gialli...
Gian Antonio Stella Corriere
della Sera 25 novembre 2009