Piazze piene e democrazia

La pubblicazione di un piccolo libro e una grande manifestazione popolare, pochi giorni fa, ci hanno messi di fronte a una domanda essenziale per la democrazia. Il libro è La democrazia che non c´è (Einaudi, pagg. 152, euro 8) di Paul Ginsborg, uno studioso assai noto al pubblico italiano per le indagini ch´egli ha dedicato alla realtà italiana con l´attenzione distaccata di chi viene di lontano, ma con la passione di chi è intimamente partecipe dei problemi del Paese che l´annovera tra i professori della sua Università. La manifestazione sono le centinaia di migliaia di persone convenute in piazza San Giovanni a Roma, per protestare contro la legge finanziaria e soprattutto per rinnovare il carisma del leader e di nuovo esibirlo coram populo. Un libro e una manifestazione di piazza: un accostamento già di per sé ricco di simboli rispetto alla domanda. La possiamo enunciare come segue.
La democrazia, nella versione rappresentativa che conosciamo, è una classe politica, scelta attraverso elezioni, che immette nelle istituzioni istanze della società per trasformarle in leggi. È dunque, nell´essenziale, un sistema di trasmissione e trasformazione di domande che si attua attraverso una sostituzione dei molti con i pochi: una classe politica al posto della società. Qui, piaccia o no, c´è la radice inestirpabile del carattere oligarchico della democrazia rappresentativa, carattere che per lo più viene occultato in rituali democratici ma che talora non ci si trattiene dall´esibire sfrontatamente. Ma, al di là di ipocrisia o arroganza, ciò che è decisivo è il rapporto di sostanza che si instaura tra questa oligarchia e la società. Dire "società" è però un parlare per astrazioni, perché essa, in concreto, è fatta di parti diverse tra le quali è inevitabile che la rappresentanza proceda per passaggi selettivi: dal popolo tutto intero agli elettori effettivi, dagli elettori alle assemblee parlamentari, dalle assemblee parlamentari alla loro maggioranza, dalla maggioranza al governo, dal governo al suo capo. Si dice spesso che la classe politica è uno specchio, né migliore né peggiore, del Paese che rappresenta, ma è una banale falsità auto-assolutoria.
La classe politica, ai suoi diversi livelli, è quello che è perché seleziona i suoi riferimenti sociali, illuminandone alcuni e oscurandone altri, stabilendo rapporti con i primi e tagliandoli con i secondi. Per questo, la classe politica non è e non può essere lo specchio della società. Se fosse un semplice rispecchiamento e non una selezione, sarebbe solo una miniatura, mentre la democrazia rappresentativa è tale perché della società la classe politica deve dare una rappresentazione, per poterla governare conseguentemente. Eccoci allora alla domanda: quali sono i riferimenti sociali della nostra classe politica? In breve: che cosa rappresentano i rappresentanti? Questo è il problema qualitativo della democrazia rappresentativa.
Guardiamoci attorno. La classe politica "pesca" dalla società le istanze ch´essa vuole rappresentare per ottenere i consensi necessari a mantenere o migliorare le proprie posizioni, secondo la legge ferrea dell´auto-conservazione delle élite. Che cosa trovano? Aspirazioni di massa al benessere materiale, esigenze di sviluppo e di tutela dei soggetti economici, affermazioni di "valori" immateriali della più diversa natura. Tante cose eterogenee e tanti soggetti sociali, conflittuali tra di loro e al loro stesso interno, che, con i mezzi più diversi, leciti e criminali, cercano di farsi strada e che la classe politica è chiamata a selezionare; un caos di istanze tra le quali si deve però fare una prima, fondamentale distinzione, a seconda della prospettiva in cui si collocano: individuale e immediata, oppure generale e duratura. In questa distinzione traspare il pericolo della catastrofe della democrazia, cui è esposta per cecità o incapacità di allargare e allungare lo sguardo.
Questa summa divisio fa oggi passare in seconda linea altre polarizzazioni politiche. Destra e sinistra, progressisti e conservatori, laici e credenti, sono divisioni importanti, ma vengono dopo e sono interne a quella principale, tra coloro che sanno interessarsi solo al loro presente e coloro che sanno concepirlo come premessa di un avvenire comune. È una tipologia del carattere degli esseri umani (la cicala e la formica) che oggi assume un significato eminentemente e drammaticamente politico, a fronte degli interrogativi che pesano sul mondo.
La grande manifestazione e il piccolo libro di cui si è detto all´inizio sono rappresentativi di questa alternativa.
Una parola d´ordine della grande manifestazione - libertà - ha riassunto tutte le altre, e non si è minimamente pensato di farla seguire da responsabilità. Libertà, da sola, significa una cosa soltanto: autorizzazione a curare illimitatamente i propri immediati interessi, a costo di dissipare i beni collettivi e permanenti che assicurano un avvenire. Solo la responsabilità può togliere alla libertà il suo veleno distruttivo. Ma, su questo, nessuna parola.


Un popolo di individui liberi e irresponsabili ha i nervi fragili di fronte all´insicurezza per l´avvenire perché avverte, al tempo stesso, di esserne causa senza avere strumenti per affrontarla. Per questo, più di tutto detesta i profeti di sventura e ama chi lo tranquillizza. La paura è uno strumento politico. Per legare a sé questo popolo, per un demagogo non c´è di meglio che, prima, diffondere paura e, poi, dissiparla. Al potere starà non il grande fratello ma il grande rassicuratore. Naturalmente, i motivi di paura reali, di cui non si ha il controllo, quelli occorre minimizzarli o occultarli. Le risorse energetiche sono alla fine? L´inquinamento ambientale è alle stelle? L´acqua scarseggia? I ghiacci polari si sciolgono? La desertificazione avanza? Niente paura. Gli scienziati non sono d´accordo nelle diagnosi e nelle prognosi. L´Aids continua a diffondersi? Nessun problema. Basta non parlarne più. Lo stesso per le inquietudini morali. Paesi interi dell´Africa tropicale muoiono? Le disuguaglianze nel mondo aumentano progressivamente? Forse non è così vero e, comunque, non ci deve importare, perché la colpa è loro e dei loro governi. Continuiamo così liberamente e non facciamoci domande inutili!
Nel nucleo del discorso sulla democrazia che non c´è di Ginsborg troviamo la nozione di società civile, il contrario di tutto questo. L´espressione ha ascendenze filosofiche, illuministiche, hegeliane e marxiane, liberali e gramsciane ma qui non è usata in nessuna di queste accezioni. Se ne prendono elementi diversi per costruire una nozione indicante un ambito di rapporti sociali che si collocano prima e fuori dei rapporti di potere pubblico ma si elevano al di sopra dei meri interessi particolari e pongono al potere politico disinteressate ma stringenti domande.
Per Ginsborg, la società civile è una «società civilizzata», portatrice di suoi valori sostenuti da libere energie di natura non egoistica; è il luogo di coloro che sanno alzare lo sguardo dalla loro pura e semplice convenienza individuale, per vedere più avanti e più in largo. È la società partecipante, che vince la passività e l´indifferenza per i problemi comuni, considerate il segno maggiore di malessere delle nostre democrazie, un segno non contraddetto, anzi semmai confermato dall´alta partecipazione a elezioni vissute come consegna delle difficoltà comuni a qualche grande rassicuratore. L´espressione che più frequentemente ritorna nel libro è «soggetti attivi e dissenzienti»: dissenzienti rispetto all´uniformità antropologica e alla improduttività spirituale indotte dalla società mondiale dei consumi; attivi nell´elaborare valori, punti di vista e bisogni differenziati rispetto a quelli dominanti. Il soggetto della società civile è l´individuo, in quanto però inserito in un «sistema aperto di connessioni». A condizione che possano sprigionare energie sociali al loro esterno, le strutture sociali comunitarie sono viste con favore: associazioni, circoli, club, movimenti di base, organizzazioni non governative nazionali e sopranazionali. L´accento, però, è posto sulla famiglia: una risorsa fondamentale se sa educare i suoi membri all´apertura e alla responsabilità verso i propri simili; un pericolo mortale se si chiude su se medesima coltivando egoismo familistico.


Questa società civile è più un obbiettivo da perseguire che un dato che possiamo constatare. In essa è riposta la speranza di una politica non di mera sopravvivenza a breve termine, non appiattita su suicidi interessi solo particolari. Non è un soggetto direttamente politico e sbaglierebbe quindi a candidarsi come forza di governo. È infatti un soggetto pre-politico, più un luogo di elaborazione e confronto di istanze sociali che un luogo di sintesi politica. Ma una classe politica non totalmente dedita alla propria auto-riproduzione farebbe bene a prestare attenzione e, anzi, a valorizzare questa risorsa della vita sociale. È lì che si possono trovare le energie che aiutano a vedere più in là delle piccole cerchie di interessi egoistici. Constatiamo le difficoltà che incontra un governo, quando chiede sacrifici nel presente, per ragioni che guardano al futuro. Dove può sperare di trovare il consenso necessario, se non in questo genere di società civile, ove sia coltivato il senso delle comuni responsabilità? L´alternativa è il circolo vizioso di forze in competizione particolaristica che si votano all´auto-distruzione, senza nemmeno rendersene conto.
In un capitolo del suo libro Collasso (Einaudi, 2005), il biologo e geografo Jared Diamond narra l´affascinante e terribile storia di Pasqua, l´isolotto in pieno Oceano Pacifico, al largo della costa cilena, un tempo rigoglioso di vita e risorse. I suoi abitanti furono presi da una razionale follia che si manifestava in una gara di potenza tra clan su chi costruisse e installasse le più mastodontiche raffigurazioni delle proprie fattezze umane, quelle statue che oggi presidiano insensatamente un paesaggio spettrale e dal mare verso terra fissano i visitatori con il loro sguardo di pietra. Nel corso di tre secoli, questa corsa al successo e al prestigio fece il deserto attorno a loro. Furono abbattuti i grandi banani il cui tronco serviva a muovere i massi scolpiti e a rizzarli nei campi. La vegetazione si ridusse ad arbusti e sparirono gli animali di terra; gli uccelli cambiarono rotta; senza i tronchi per le canoe, anche la pesca cessò.
Finirono con l´abbrutirsi mangiando i ratti e poi divorandosi tra loro. Ci si chiede come abbiano potuto trascinarsi così in basso, addirittura con i loro stessi sforzi, riducendo una terra feconda in un´infelice gabbia mortifera dalla quale, avendo distrutto anche l´ultimo albero che sarebbe servito per l´ultima imbarcazione, finirono per non poter andarsene via. Una società tanto cieca rispetto al suo avvenire, si dice debba essersi fidata fino all´ultimo delle parole di qualche grande assicuratore che, per non dispiacere al suo popolo e farlo credere libero di proseguire nella sua follia, non usava altro che parole di ottimismo, parole con le quali gli impedì di alzare la testa e aprire gli occhi.

 

Gustavo Zagrebelsky,     la Repubblica, 12-12-2006