Per una Chiesa che
non divida
A papa Ratzinger sembra venuto il momento – come egli ha ieri annunciato – di
auspicare la
formazione e l'avvento di una nuova generazione di politici "cattolici". È una
rivendicazione
d'appartenenza assai forte e netta, che è interessante provare a discutere in
riferimento a una
questione cruciale del nostro tempo, certo molto cara alla dottrina della
Chiesa: l'atteggiamento
verso i poveri, gli sconfitti, gli esclusi. Nel settembre del 1391, al tribunale
dello Chatelet di Parigi,
un piccolo ladro che viveva di lavori d'occasione veniva condannato a morte con
la motivazione che
egli meritasse la pena perché "inutile al mondo": una formula agghiacciante, che
ricorre spesso nei
trattati sul vagabondaggio fin dal tardo Medioevo. In un'Europa già illuminata
da umanesimo e
rinascimento, l'indigenza non appariva altrimenti che nell'alternativa tra la
pietà e la forca (il titolo
di un indimenticabile libro di Geremek): la carità e la repressione. La
tradizione cristiana, e quella
cattolica in particolare, non avrebbero mai saputo davvero oltrepassare questi
confini.
Sarebbe stata invece la rivoluzione industriale e la lotta di classe che
ridisegnarono, fra Otto e
Novecento, il profilo e i sentimenti dell'Occidente, a spazzar via un universo
morale che aveva già
fatto fremere la scrittura di Rousseau.
Al suo posto, la scoperta dirompente di un rapporto cruciale e storicamente
determinato fra
diseguaglianza e sfruttamento. La convinzione che il lavoro produttore di
ricchezza materiale
contenesse una tale carica di emancipazione da essere in grado di riscattare
ogni forma di esclusione
e di marginalità. E insieme la presunzione che vi fosse una soggettività
privilegiata – la classe
operaia – che, liberando se stessa, liberasse tutti.
Oggi la crisi irreversibile del sistema di fabbrica ha completamente travolto
questo quadro di
riferimento. Il nuovo lavoro produttore di ricchezza immateriale –
comunicazione, conoscenza,
servizi – fluido, frantumato, intrinsecamente desocializzato, ha perduto ogni
valore "generale". È di
sicuro il protagonista assoluto del nostro tempo, ed è in grado di
autoproteggersi, ma non può offrire
una prospettiva di emancipazione e di riscatto per l'intera società. E
soprattutto, non è in grado di
garantire un punto d'appoggio agli indifesi, ai deboli, agli esclusi, ai
perdenti, alle masse di migranti
che premono alle porte dei nostri privilegi.
Questo cambiamento radicale nella pratica e nell'idea del lavoro ha
completamente spiazzato il
pensiero democratico dell'Occidente. E ha lasciato allo scoperto le parti più
fragili sia delle società
nazionali, sia dell'intero pianeta – in Africa, in America Latina – proprio
nella stagione in cui
avrebbero avuto più bisogno di difesa, di sostegno, di una cornice ideologica
cui aggrapparsi.
Peggio ancora, quel cambiamento ha spezzato gli strumenti intellettuali
attraverso i quali
interpretare a dare un senso alla nuova povertà e alle nuove diseguaglianze.
Ed ecco allora come nel vuoto concettuale e politico – starei per dire emotivo,
perché anche i
sentimenti hanno una storia – che si è in questo modo aperto, tornano ad
affiorare dal fondo della
nostra condizione mentale pulsioni e stati d'animo che credevamo dimenticati: e
di nuovo ci sembra
in molti casi di non avere ormai altro a disposizione, di fronte alla
drammaticità della scena, se non
rifugi assai antichi: l'indifferenza o la domanda di repressione. Ed è in questo
vuoto, in questo
silenzio, che è tornata a farsi sentire la voce della Chiesa, che con una forza
inattesa suggerisce una
pratica di carità e di accoglienza capace di rigenerare la propria dottrina e di
trovare accenti di una
critica anticapitalistica che pareva del tutto sparita sotto le rovine del
comunismo.
È una strada piena di suggestione: che apre al pensiero e alla presenza del
mondo cattolico una
prospettiva di straordinario vigore. Ma nemmeno questo basta a farci dire che
c'è oggi bisogno di
una nuova generazione di "politici cattolici", come non c'è più bisogno di
"politici laici". Sono
appartenenze che non aiutano, perché dividono, quando invece dobbiamo unire.
Quel che occorre è
piuttosto una generazione di politici senza etichette religiose, che incrociando
più tradizioni
riescano a trasformare l'obiettivo della costruzione di una società più equa da
una questione legata,
come una volta, alla lotta di classe, e dunque espressione delle esigenze e
degli ideali di una parte
sola degli attori in campo, in una questione sentita come primaria dalle intere
collettività nazionali,
e dall'ordine globale nel suo insieme.
Per far questo, è necessaria una autentica rivoluzione morale, alla quale
tutti dobbiamo sentirci
chiamati: l'unica che possa spostare il piano dei nostri pensieri e delle nostre
azioni dal conflitto
economico alla condivisione etica. Qualcosa di simile a quel che è accaduto
nell'Ottocento intorno
all'abolizione della tratta e della schiavitù. Come allora, vi sono le basi
strutturali per un grande
salto. L'intreccio fra rivoluzione tecnologica e globalizzazione dei mercati
consente possibilità di
riequilibrio ancora del tutto inesplorate; possibilità di mediazione fra
profitti privati e
redistribuzione della ricchezza e delle opportunità sconosciute al vecchio
capitalismo industriale,
vincolato ai soli accumuli di plusvalore possibili attraverso lo sfruttamento
del lavoro materiale
umano. Sondare questi spazi, e creare le condizioni culturali per farlo, deve
diventare l'obiettivo di
uno schieramento democratico all'altezza dei tempi. La Chiesa può dare un
contributo determinante,
ma rinunciando ad imporre il proprio sigillo su una parte degli attori politici.
Stiamo tutti sperimentando, nelle società avanzate dell'Occidente, un pericoloso
inasprirsi deirapporti sociali.
È la conseguenza della nostra grande trasformazione, ed era già accaduto
all'inizio
della rivoluzione industriale. Ma è anche la conseguenza dello scarto fra il
carattere globale delle
nostre responsabilità, in crescita smisurata grazie alla potenza della tecnica,
e il carattere ancora
parcellizzato e "locale" della nostra morale, che non riesce a rappresentarsi in
maniera adeguata la
rete di interdipendenze che lega ormai ogni comunità nazionale e, al di là di
esse, l'intera vita sul
pianeta.
Abbiamo bisogno insomma di una nuova etica della cittadinanza, e, con un
raggio più ampio, di una
nuova etica della specie. Occorrono immaginazione, talento, saperi. Vi sono:
bisogna solo
mobilitarli, e metterli all'opera. Che la Chiesa faccia la sua parte, ma senza
evocare divisioni e
steccati.
Adriano Prosperi la Repubblica 8
settembre 2008