Per la prima volta in edizione integrale gli appunti dell'intellettuale ucciso
dai nazifascisti
Artom, partigiano senza retorica
Nel diario anche gli aspetti sgradevoli e brutali della guerriglia
Provate a immaginare un partigiano che tiene un diario. Che sfida le regole più
ovvie della prudenza militare, oltreché gli imperativi più cogenti di
un'esistenza randagia, per affidare alla pagina scritta il racconto in presa
diretta della «vita di un bandito» nelle valli piemontesi, dal novembre 1943 al
febbraio '44. E provate a immaginare che quel partigiano, anziché idealizzare la
sua condizione di combattente per la libertà, decida di non sottacere nulla, ma
proprio nulla della Resistenza vista dall'interno: i calcoli, le volgarità, i
fanatismi, le violenze. Provate a immaginare tutto questo, e avrete un documento
storico straordinario, che esiste davvero e che è stato appena ripubblicato (per
la prima volta in versione integrale) dalle edizioni Bollati Boringhieri: è il
Diario partigiano di Emanuele Artom.
Rampollo di una famiglia della borghesia ebraica torinese, colto e appassionato
quanto timido e maldestro, Artom aveva ventotto anni quando aderì al Partito
d'Azione, subito dopo l'8 settembre '43, e raggiunse le bande dei «ribelli» tra
la Val Pellice e la Val Germanasca. Denunciato da una spia e catturato dai
nazifascisti in un rastrellamento del 26 marzo '44, fu riconosciuto quale
commissario politico del Partito d'Azione, e inoltre quale ebreo. Venne più
volte torturato. Fu anche fotografato a cavallo di un asino, con un ridicolo
cappello sulla testa e una scopa sotto il braccio, il viso tumefatto: «bandito
ebreo catturato», recitava la didascalia della foto su un periodico
collaborazionista. Trasferito alle Carceri Nuove di Torino, morì il 7 aprile,
dopo avere patito ogni genere di sevizie. Sepolto in un bosco presso Stupinigi,
il suo corpo non è stato mai ritrovato.
Di mestiere, Artom voleva fare lo storico. E appunto per «storicismo » decise di
redigere un diario resistenziale (ma l'aveva cominciato fin dal 1940),
trasmettendone fortunosamente le pagine ai genitori sfollati e nascosti: «In
futuro sarà una interessante testimonianza, perché credo che pochi siano i
partigiani che lo tengono con tanta assiduità e, d'altra parte, per ovvie
ragioni si scrivono poche lettere confuse e prive di notizie politiche ». Un
diario dove l'intellettuale un po' grafomane si sforza di registrare ad uno ad
uno i risvolti quotidiani della vita della banda, e per farlo deve misurarsi
prima ancora che con la politica con l'antropologia di un microcosmo composto di
uomini giovani, a volte ribaldi, spesso zotici, non di rado allupati. Il
borghese Artom cela a malapena il suo disprezzo per i compagni d'arme di origini
operaie, segnatamente per i capi comunisti, «attivi, pratici, cordiali, ma
fanatici e ignorantissimi». Partigiani che domandano se Omero abbia scritto in
greco antico o moderno, che confondono Croce con Lombroso, che sputano sul fieno
dove devono dormire e scoreggiano fragorosamente prima di addormentarsi... «Come
potremo affidare a questa gente il governo dell'Italia?». Severo come un maestro
elementare d'altri tempi, Artom registra nel diario anche la scena di «quel
vecchio porco di Nicola», che «faceva vedere ai ragazzi delle fotografie
oscene». Ma Emanuele stesso è un giovane uomo che la vita in montagna ha
separato dalle donne. Capita dunque pure a lui di guardare con interesse «due
fotografie di R. seminuda» (è l'amante del suo migliore amico), e gli capita di
sognare quando condivide con due compagni «un immenso letto con 3 posti » il
letto a tre piazze dell'Orlando furioso dove giacevano Astolfo, Fiammetta e
Iocondo: «Ma purtroppo Fiammetta non c'è».
Nel lucido saggio pubblicato in appendice al Diario partigiano, lo storico Guri
Schwarz sottolinea come il testo non manchi di implicazioni propriamente
politiche. Da un lato, il diario di Artom documenta il disagio incontrato
dall'intellighenzia azionista di città nel comunicare con i ribelli di periferia
o di campagna. Troppo colti e smagati, troppo snob, i partigiani- professori non
sapevano parlare al cuore di manovali e di braccianti che si esprimevano quasi
soltanto in dialetto, e che erano saliti in montagna da renitenti alla leva di
Salò piuttosto che da resistenti: più facile che gli «apolitici» si lasciassero
incantare, semmai, dal ferreo dogmatismo comunista. D'altra parte, il diario
documenta le perplessità di certi capi partigiani nell'aderire ai «metodi
fascisti» di combattimento della guerra civile. In particolare, Emanuele Artom
fu tra quanti (pochi) criticarono la prassi di uccidere i nemici tedeschi o
saloini dopo averli fatti prigionieri. Avrebbe preferito graziarli, a costo di
subirne un danno militare: «Almeno davanti alla popolazione e alla storia si
sarebbero rese note le differenze fra i due metodi ».
Parole come queste bastano da sole a suggerire la ricchezza del testo di Artom.
Ma le parole che maggiormente colpiscono il lettore del 2008 sono quelle con cui
l'autore commenta due ordinari episodi di vita ai margini della banda: un
partigiano ubriaco che litiga con un carabiniere e viene incarcerato per alcune
ore, un altro partigiano che mette incinta una ragazza forse usandole violenza.
«Bisogna scrivere questi fatti, perché fra qualche decennio una nuova rettorica
patriottarda o pseudoliberale non venga a esaltare le formazioni dei purissimi
eroi: siamo quello che siamo: un complesso di individui in parte disinteressati
e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che
temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura,
in parte da quello di rapina. Gli uomini sono uomini».
Altrettante parole che dovrebbero imparare a memoria i soloni d'oggidì, quando
stucchevolmente ci spiegano come la Resistenza vada «smitizzata» e come la
guerra partigiana sia un evento da «sfatare ». Il diario di Artom dimostra
magnificamente come il discorso stesso dei resistenti, almeno nelle sue
espressioni più alte, contenesse l'antidoto del mito. Soprattutto, il Diario
partigiano dimostra come lo scoprire i limiti politici e morali della Resistenza
non equivalga affatto a disconoscerne l'immenso merito storico. Ancora con
parole di Emanuele Artom, le migliori possibili: «Può essere che in futuro
questo mio spregiudicato e pessimistico diario possa fare cattiva impressione:
si dica che io, arrampicandomi per la montagna, mi fermavo a osservare sterpi e
sassi i brutti episodi son numerosi e non guardavo la vetta o il paesaggio.
Errore, errore. Se non vedessi vetta o paesaggio, non farei la dura salita, ma
per timore di rettorica preferisco tacere gli alti ideali».
Sergio Luzzatto Corriere della Sera 6.5.08