Il pentimento
indispensabile
In Polonia, nella grande sala dell'Università Cattolica di Lublino, la folla è
numerosa. Il clero
occupa le prime file per la Giornata del giudaismo istituita dalla Chiesa
polacca. Io sono l'ospite
d'onore ed è la prima volta che torno nel mio Paese natale. Emozione. Ritrovo la
lingua. Parlo della
storia che accomuna ebrei e polacchi da mille anni, da quando nacque il regno di
Polonia. Racconto
la vita di questa minoranza ebraica che prima della guerra rappresentava l'11
per cento della
popolazione, una percentuale comparabile a quella dei neri negli Stati Uniti
odierni. Chiedo di
immaginare New York, Los Angeles, Chicago o Baltimora senza afroamericani. Quel
grande Paese
non sarebbe più lo stesso: e nemmeno il suo cinema, la sua musica, la sua
letteratura, i suoi balli, il
ritmo delle sue strade. La Polonia senza ebrei mi fa lo stesso effetto. Noi
siamo, dico, come una
coppia molto anziana. Una coppia che si amava, si odiava, si affascinava,
arrivava addirittura ad
augurarsi che l'altro scomparisse, ma quando l'altro non c'è più chi resta si
ritrova vedovo. Lublino
non aveva mai sentito un discorso simile. Io sognavo di fare di questa Giornata
del giudaismo una
Giornata del pentimento. Tre milioni e mezzo di ebrei assassinati lo
giustificavano ampiamente.
Certo, non sono stati propriamente i polacchi ad ucciderli, ma la maggioranza
tra loro, come
ricordava il polacco Czeslaw Milosz, premio Nobel della letteratura 1980, non li
ha nemmeno
granché aiutati. Il pentimento mi sembra assolutamente indispensabile: come
potrebbero altrimenti i
polacchi riappropriarsi finalmente della loro storia, di tutta la loro storia,
compresa la parte ebraica
del loro passato?
Come una saracinesca è caduto un silenzio sulle mie ultime parole. Neanche un
applauso: la
freddezza del metallo. Quando l'arcivescovo di Lublino, monsignor Jozef Zycinski,
ha chiesto se
c'erano domande, si è alzato un uomo. Mi ha fatto cortesemente le sue
congratulazioni. Poi mi ha
chiesto perché non avevo invitato i russi a dare mostra di pentimento.
Precisando: quei russi che
hanno massacrato centinaia di migliaia di polacchi «con la complicità dei
comunisti ebrei». Allora,
soltanto allora, la sala, unanimemente, si è alzata in piedi applaudendo
entusiasticamente. È andata
avanti per dieci minuti buoni. L'arcivescovo, visibilmente imbarazzato, ha
alzato le braccia al cielo:
«Smettetela! Offendete il vostro pastore!». La sua collera era sincera. La
reazione della folla anche.
Sotto l'influenza di Giovanni Paolo II, il papa polacco che ho avuto l'onore di
conoscere bene, la
gerarchia cattolica si era riavvicinata agli ebrei. Non erano, citando le sue
stesse parole, i «fratelli
maggiori della Chiesa»? Le accuse di "popolo deicida" cominciarono a scomparire
dalla liturgia e
l'espressione "perfidi giudei" sparì dalla preghiera del Venerdì Santo.
Giovanni Paolo II era un papa di resistenza. Per cominciare, si era opposto al
totalitarismo
sovietico. Questa resistenza l'aveva portata avanti, già prima della guerra, al
fianco degli ebrei di
Wodowice, il paesino dov'era nato; dopo la guerra contro il comunismo importato
che soffocava il
suo Paese.
Il cardinale Ratzinger, il suo successore col nome di Benedetto XVI, è,
invece, un papa di guerra. Il
ritorno della religione, fenomeno che avrebbe segnato il nuovo secolo secondo le
tesi da lui stesso
sostenute, non va solo a vantaggio della Chiesa, tutt'altro. Altre religioni, in
particolare l'Islam, ne
traggono profitto. Ieri era il comunismo che si ergeva contro il cristianesimo,
oggi è la moschea che
si erge contro la chiesa. In questi ultimi anni, i cristiani sono stati
scacciati dall'Iraq. In Egitto, in
Indonesia e in India sono perseguitati, a volte assassinati. Ecco perché, in un
discorso a Ratisbona il
12 settembre del 2006, Benedetto XVI ha appellato l'Islam alla Ragione. Ha
ripetuto queste
affermazioni due mesi fa di fronte a dei responsabili musulmani invitati in
Vaticano.
Più vicino a Urbano II, che lanciò la prima crociata nel 1095, che a
Giulio II, che commissionò gli
affreschi della Cappella Sistina a Michelangelo nel 1512, Benedetto XVI sa che
per opporsi
all'Islam ha bisogno di tutte le forze della Chiesa, comprese le più dure e
reazionarie fra di esse. Ed
ecco che ha tolto la scomunica che colpiva, dai tempi di Giovanni Paolo II i
vescovi integralisti, tra
cui il negazionista monsignor Williamson. Aprendo le porte della Chiesa ai
vescovi ordinati
illegalmente da monsignor Marcel Lefebvre, contestatore delle decisioni del
concilio Vaticano II
(1962-1965), Benedetto XVI tenta di adunare gli estremisti della Fraternità
sacerdotale San Pio X,
valutati in centocinquantamila fedeli in tutto il mondo.
Nella sua strategia figura anche la riabilitazione di Pio XII, quel papa che i
suoi avversari
chiamavano "il papa di Hitler". Eletto il 2 marzo 1939, l'anno in cui le truppe
naziste entrarono a
Varsavia, Pio XII inviò una lettera personale al Führer: «Desideriamo restare
legati al popolo
tedesco affidato alle vostre cure, attraverso un'intima benevolenza».
Dopo la guerra, il suo silenzio in quegli anni di morte fu abbondantemente
commentato e criticato.
L'Osservatore Romano, di cui suo nonno Marcantonio Pacelli fu uno dei fondatori,
prese le sue
difese: «Di fronte all'Olocausto, il papa Pio XII non è stato né silenzioso né
antisemita, ma
prudente». Che sarebbe successo (se) il papa fosse stato meno prudente, se
avesse chiamato tutti i
cristiani, e innanzitutto i suoi, i cattolici, a salvare gli ebrei? La Shoah
avrebbe preso un'altra piega?
Il drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth pose questa domanda con clamore nella sua
opera Il vicario,
realizzata a Berlino Ovest il 20 agosto 1963: la pièce fece scalpore in tutto il
mondo. Nel 2002
Costa Gavras ne ricavò un film, Amen.
La storica italiana Emma Fattorini torna sull'argomento in un libro di recente
pubblicazione, Pio
XII, Hitler e Mussolini. Basandosi su un documento trovato negli archivi del
Vaticano, la Fattorini
assicura che Pio XI, predecessore di Pio XII, aveva convocato l'11 febbraio 1939
l'insieme dei
vescovi italiani per il decimo anniversario degli accordi del Laterano tra la
Chiesa e Mussolini. In
quell'occasione avrebbe condannato il regime fascista e quello nazista. Ma Pio
XI morì la notte del
10 febbraio 1939. C'è chi sostiene, senza poterlo dimostrare, che sarebbe morto
per avvelenamento.
Il papa all'epoca aveva ottantadue anni. Invece, secondo il documento citato
dalla Fattorini, il suo
segretario di Stato, il cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, si mostrò
fautore di un
atteggiamento più diplomatico verso i fascisti e avrebbe fatto distruggere sia
le bozze che i piombi
di quel discorso mai pronunciato.
I difensori di Pio XII, soprattutto quelli che si battono per la sua
beatificazione, come il tedesco
Gumpel e un'ampia fascia conservatrice della Chiesa, negano il suo
antigiudaismo. Per l'attuale
pontefice, Joseph Ratzinger, «la causa della beatificazione del servitore di Dio
proseguirà
felicemente».
Il ritorno del fantasma di Pio XII ha provocato commozione e collera in Israele
e nelle comunità
ebraiche di tutto il mondo: era veramente antisemita? Non necessariamente. Se
non rispose alla
lettera del 14 giugno 1942 dell'arcivescovo di Friburgo, monsignor Conrad Gröber,
che lo allertava
sulla determinazione del regime nazista a distruggere il giudaismo, è perché
quell'argomento,
ahimé, non lo interessava affatto. Per Pio XII, il pericolo principale non
era il fascismo, ma la
Russia comunista, regime ateo. Preferì dunque tenersi buona la
Germania, perfino quando invase la
Polonia, condannando invece la Russia quando questa attaccò la Finlandia. La
crociata contro il
comunismo lo condurrà a sostenere Franco contro la Repubblica spagnola e a
rallegrarsi con
l'ambasciatore tedesco presso la Santa Sede per i successi militari della
Wehrmacht sul fronte russo.
Il destino dell'uomo è tragico: unico tra gli esseri viventi a essere a
conoscenza del limite della sua
esistenza. Esistenza difficile, che sopravvive solo grazie alla speranza. In
Francia, i laici sono
riusciti a imporre, con Aristide Briand, il 9 dicembre 1905, la legge sulla
separazione tra le Chiese e
lo Stato, perché erano in grado di offrire ai francesi speranze universali
diverse da quelle delle
religioni. Di fronte alle confessioni allora rappresentate, la cattolica, la
protestante, la luterana, la
riformata e l'israelita, la Storia ha schierato il socialismo, il comunismo, il
fascismo e il liberalismo,
ideologie che hanno poi fallito. Da allora, sempre incapaci di vivere
senza speranza, gli uomini
tornano alla religione. Insomma, con Nietzsche abbiamo creduto che Dio
era morto, ma ci siamo
sbagliati. Un giorno su un muro di Berlino ho visto una scritta: «Nietzsche è
morto»; era firmata
Dio. Ma le vie del Signore, sempre impenetrabili, sono veramente quelle di
Ratzinger?
Marek Halter la Repubblica 30
gennaio 2009