Il peccato del mondo

 

El Salvador: altre vittime, della natura e della barbarie umana, si aggiungono alla memoria dei martiri.

In Salvador ci sono sempre martiri da ricordare. Ci stiamo avvicinando alla commemorazione di quelli dell’Università Centroamericana (Uca), in novembre, delle quattro religiose nordamericane, in dicembre, e degli innumerevoli martiri di sempre.  Ma questo mese di ottobre ci ha portato altre vittime, prodotto della natura – uragano ed eruzione vulcanica – e dell’iniquità degli esseri umani. A San Marcos un’intera famiglia, padre, madre e tre bambini, è morta sotterrata. Circolava un commento, laconico e preciso: “Non li ha uccisi la natura, ma la povertà”.  Su queste vittime e sui suoi responsabili, su quello che esigono e su quello che offrono – se ci apriamo al mistero della vita – vogliamo fare alcune brevi riflessioni.

1. “Sempre lo stesso e sempre gli stessi”.

Il popolo crocifisso. Le scene di sofferenza e crudeltà sono spaventose e la loro portata fa accapponare la pelle. I morti sono più di 70, i danneggiati, in un modo o nell’altro, superano i 70.000 e i danni materiali possono essere pressappoco equivalenti a tre o quattro bilanci statali. La catastrofe si estende al Messico e al Nicaragua, ma soprattutto al Guatemala. L’abitato di Panabaj è stato dichiarato camposanto: circa 3.000 persone sono morte sotterrate. “Un villaggio maya giace sotto 12 metri di fango”, diceva la notizia. E proprio poco fa, un terremoto in Kashmir ha provocato 30.000 vittime e due milioni e mezzo di senzatetto.

Di fronte a tutto ciò, la nostra prima riflessione è la seguente.  Questi terribili eventi non ci offrono niente che non avessimo già visto. Con gradi diversi, dicono, come sempre, che nell’immensa maggioranza le vittime sono i poveri. Le catastrofi mostrano la povertà del nostro mondo, e a sua volta questa povertà è, in buona parte, causa delle catastrofi e delle loro conseguenze. A questo ci siamo abituati con naturalezza, perché la psicologia, l’insensibilità o la cattiva coscienza degli esseri umani possa convivere con la catastrofe. Senza parole, si finisce col dire: “È normale che loro, i poveri, soffrano, perché le cose stanno così.  Anormale sarebbe che noi, quelli che non siamo poveri, soffrissimo questo tipo di disgrazie”.

Quelli che soffrono nelle inondazioni, nei terremoti, nelle eruzioni vulcaniche – come ora quella del Santa Ana – quelli che non hanno lavoro o che vengono licenziati, gli espulsi dagli Stati Uniti, quelli che perdono le loro casupole e i poveri beni, quelli che vedono morire i loro figli o i loro genitori sono sempre gli stessi, i poveri. E con maggior frequenza i più deboli fra di loro: bambini, donne e anziani. Succedeva la stessa cosa al tempo della repressione e della guerra: la maggioranza dei torturati, dei desaparecidos, dei morti erano poveri. Manca un Roque Dalton per cantare bene questa litania.

Ellacuría lo diceva con chiarezza. Quello che caratterizza il nostro Paese è il “popolo crocifisso”. E aggiungeva due cose, l’una più forte e lucida dell’altra. Una è che a questo popolo strappano “la vita”, la cosa fondamentale, basilare. L’altra è che il segno che ci contraddistingue è “sempre” il popolo crocifisso. Lo abbiamo già detto: con sfumature ed eccezioni, terremoti, inondazioni, frane – prima torture, assassinii, sparizioni – sempre si accaniscono sugli stessi, i poveri. E sempre producono le stesse cose: morte o vicinanza alla morte. Questo genera indignazione – sebbene oggi giorno sembra non essere più ben visto l’indignarsi, sebbene i potenti tollerino i lamenti e gli appelli, tra convinti e di routine, alla solidarietà. E meno ancora esiste l’indignazione quando si ripete, come nel nostro Paese, che le cose vanno bene o che vanno per il verso giusto.

Però, oltre ad indignare, la catastrofe fa pensare. Si offre la globalizzazione come promessa ferma e certa di salvezza, ma questa globalizzazione, in flagrante contraddizione con la sua formulazione quando capitano le grandi tragedie, continua ad essere assolutamente selettiva: sempre contro i poveri, mai - o raramente - contro i ricchi. Durante lo Tsunami, ha sorpreso veder soffrire europei e nordamericani, però non ha meravigliato che soffrissero i poveri dell’Asia. E durante Katrina non ha sorpreso che i ricchi abbiano abbandonato New Orleans con i jet privati, né che altri abbiano fatto lunghe code per le strade per avere la benzina. Né che molti altri, persone di pelle nera, uomini e donne, siano rimasti colpiti dal-l’inondazione nella fascia povera della città. È la stratificazione naturale della società. Il “luogo naturale” dei poveri, diceva Aristotele, è la povertà.

Né la Banca Mondiale, né il Fondo Monetario, né il G8, né coloro che annunciano la sfida del millennio sono capaci di pensare e di decidersi seriamente per una globalizzazione reale della vita. Non si tratta del fatto che tutti soffrano, ma che nessuno soffra.  Quello che sta capitando in questi giorni è uno scandalo di lesa umanità. Nelson Mandela, durante la presentazione dell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, ha detto che l’immensa povertà e l’oscena disuguaglianza sono flagelli di questa epoca così spaventosi come l’apartheid o la schiavitù lo sono stati in epoche passate. Ed Eduardo Galeano, giunto nel nostro Paese durante le inondazioni, ha detto: “Spero che servano almeno per sottolineare che dobbiamo smetterla di chiamarle catastrofi naturali. Sono catastrofi, ma sono il risultato del sistema di potere che ha mandato il clima in tilt”.

2. “L’opzione per i ricchi?”. Il peccato del mondo

Se la tragedia non è mero prodotto di catastrofi naturali e se la litania di “lo stesso, gli stessi” non è una casualità, qualcosa continua ad essere sbagliato nel nostro Paese. Prima era chiamato peccato strutturale. I cristiani parlavano di “peccato del mondo”, citavano i profeti di Israele, Gesù di Nazaret e la lettera di un irato San Giacomo. Ora non va più molto di moda questo linguaggio, neppure nelle Chiese. E il mondo democratico occidentale, in parte laico e secolare, con tutto il diritto, non riesce a trovare - e non so se gli interessa farlo - parole equivalenti che esprimano la tragedia e la responsabilità. E meno ancora se questa responsabilità lo riguarda. Per questo parla di “meno favoriti”, di “Paesi in via di sviluppo”. Eufemismi.

La tragedia di questi giorni mostra, ancora una volta, l’ingiustizia strutturale nel Paese. Prima della tragedia, proseguendo una pratica secolare, si continuavano a costruire strade senza protezione, né si prestava attenzione alle costruzioni assai fatiscenti dei quartieri più poveri. E questo è ancora più scandaloso, considerando che non è stato impedito ai ricchi di disboscare e di costruire le proprie case a proprio piacimento. Le promesse di prevenzione sono state carta straccia.

Ora, di fronte alla tragedia, bisogna chiedersi quanto hanno sofferto gli uni e quanto denaro hanno guadagnato gli altri, edificando in zone proibite dalla legge o dalla coscienza. E che fanno i responsabili per impedirlo? Dov’è sepolta l’opzione per i poveri, per i “più poveri” di cui parlava senza impallidire il presidente Christiani? Le catastrofi mostrano quello che tutto il mondo sa. L’opzione di coloro che reggono il Paese va in un’altra direzione: è l’opzione diretta per coloro che hanno i soldi o per quello che li produce. Optare per i poveri può rispondere a un qualche vago sentimento etico o ad una strategia perché la situazione continui a favorire i ricchi. Però l’opzione non c’è. Non si pensa ai poveri prima dei ricchi nel provvedere al Paese.  Questo da sempre; ha radici strutturali. Ora tuttavia con le catastrofi affiorano altri mali congiunturali, anch’essi ricorrenti.  Certamente non è facile far conoscere la verità di tutto quello che è accaduto, però i membri del governo non sembrano preparati ad informare. È un’espressione di irresponsabilità governativa. E ancora meno si vuole far conoscere la verità sulle cause di quanto accaduto: potrebbero emergere responsabili e colpevoli.  È più facile dissimulare, esimere da responsabilità, esagerare quello che si è fatto per contenere la catastrofe, promettere trasparenza, o semplicemente tacere, non dire la verità. Tutto questo perché autorità, politici e arricchiti stiano tranquilli.  Mascherare la realtà, pratica tanto usata dal presidente Bush fino a quando i feretri sono apparsi in televisione e la realtà si è resa inoccultabile. Fra noi non dovrebbe meravigliare la spudoratezza del non dire la verità. 25 anni dopo, i governi ancora non dicono la verità sull’assassinio di mons. Romero, sebbene la Commissione della Verità delle Nazioni Unite abbia emesso il suo verdetto dodici anni fa. Mentre si elogiano pubblicamente e senza scrupoli i responsabili degli squadroni della morte.

Appare anche l’immoralità della propaganda di partito. Il partito al potere capitalizza la tragedia a suo vantaggio. In televisione, sulle reti private, vengono offerti miniprogammi (da 5 a 10 minuti) del partito Arena durante i quali si vedono i suoi candidati a sindaco e a deputato che distribuiscono vestiti, camicette...  Appare la prepotenza di alcuni grandi capitalisti, fotografati sui giornali mentre consegnano assegni per le persone colpite. Ignorano quello che diceva Gesù: “la tua mano destra non sappia quello che fa la sinistra”.

E appare la disumanizzazione dell’industria dei media. Alcuni di loro si litigano la “primizia” della notizia, la foto del cadavere recuperato di una bambina. Il successo professionale, un buon posizionamento, interessa più che comunicare il dolore della gente e i suoi sentimenti.

Tuttavia, anche se molto contrastata, la verità è tornata a farsi strada: nelle grida della gente che soffre, nelle persone sensate che si chiedono incredule come è possibile vivere in un Paese così.  All’ingresso della Ysuca (la stazione radio del-l’Università Centroamericana - Uca) raccogliendo e organizzando aiuti di emergenza, un sacerdote di Sonsonate lo ha detto chiaramente: “nel quotidiano non viene percepita, ma questa è la realtà del Paese: la povertà”.

3. “Il cuore di carne”. Solidarietà.

In mezzo alla tragedia appare sempre la forza della vita, della speranza, dell’amore. E in queste occasioni prende la forma di solidarietà.

Molti collaborano per alleviare la sofferenza – la risposta agli appelli della Ysuca e di altri è realmente impressionante. Arriva gente con quintali di mais, fagioli - a volte se li caricano donne semplici sulla testa - zucchero, cartoni di latte, centinaia di pacchi di vestiario, dozzine di materassini, coperte, medicine… Sono persone semplici, normali, che si attivano immediatamente per far arrivare gli aiuti. Si avvicinano anche alcune persone più abbienti con donazioni importanti. A volte impiegati di note aziende che hanno raccolto aiuti fra di loro. Perfino una squadra di operai ha offerto una gru per rimuovere le macerie. E arrivano medici, infermiere, religiose… Sono l’aiuto e il servizio che germogliano come fosse cosa ovvia, che ci garantiscono un minimo di umanità.  Molti ricoveri sono gestiti dalle Chiese. L’aiu-to governativo, quando arriva, arriva tardi e scarso, e talvolta è persino rifiutato dalla gente. Molte parrocchie e comunità, cattoliche e protestanti, religiose, operatori di pastorale, pastori… si fanno in quattro in questi giorni. E lo fanno con semplicità e con grande creatività, qualcosa che permette loro di essere cristiani e cristiane perché sono umani e umane. E lo fanno senza aspettarsi né attendere indicazioni dall’alto.

Ci sono anche offerte di aiuto dall’estero. Secondo una tradizione secolare, alcuni arriveranno intatti e saranno utili, frutto del dolore e dell’amore. Sono “i solidali di sempre”, persone e istituzioni che anche in tempi di normalità contribuiscono allo sviluppo delle comunità e delle istituzioni che vigilano sui diritti dei poveri, e di quelle che analizzano e dicono la loro verità.  Questi solidali, certamente vengono nel nostro Paese quando il popolo celebra mons. Romero e i martiri. È la solidarietà “salvadoregnizzata”.

Altri aiuti arriveranno con maggior burocrazia, con maggiore interesse politico e con maggiori sospetti di non arrivare a destinazione come Dio comanda. Siano i benvenuti, almeno per le emergenze. Però aggiungiamo un desiderio: che non dimentichino che, se non ci aiutano a cambiare le nostre strutture ingiuste, peggio ancora, se le consolidano e se ne approfittano per fare buoni affari, aiutare nella catastrofe è un gesto di routine che non umanizza. E può essere una beffa. È come mantenere moribondo il povero Lazzaro insieme al riccone sempre più florido e opulento.

4. “Santità primordiale”. L’eroicità del vivere.

Facciamo ora alcune riflessioni più in là di ciò che si vede e si constata. Sono audaci. Accettarle o meno dipenderà dalla sensibilità e dalla fede di ciascuno, fede religiosa o umana, con cui si guarda la realtà. E di fronte a delle vittime possiamo farle solo con il massimo rispetto.

Nei luoghi colpiti dalla catastrofe le scene sono laceranti. Come nel servo sofferente di Javhé, non vi è in esse alcuna bellezza.  Vedere le vittime che gridano, che difendono i loro figli piccoli, che piangono i loro cadaveri, aggrappate ad una sedia – tutto quello che è rimasto loro – perché l’acqua non la porti via, che pregano, che protestano per quello che il governo fa o non fa, riporta alla mente molte altre catastrofi. Fra noi: terremoti, repressione e miseria quotidiana; in altri luoghi, Niger, Sudafrica, Grandi Laghi, madri e bambini affamati, malati di Aids, che camminano in lunghissime carovane per centinaia di chilometri senza praticamente nulla. Però può capitare – e capita – il grande miracolo: le vittime vogliono vivere, aiutarsi reciprocamente a vivere. E allora in mezzo alla catastrofe appare la dignità, l’amore, la speranza, persino l’organizzazione popolare, religiosa e civile - soprattutto delle donne - per dire una parola e mantenere la dignità. Nel Salvador è assai nota la decisione delle vittime di ricostruirsi la vita dopo le catastrofi.

Non credo ci siano parole adeguate per descriverlo, però forse queste possono servire. “Questo anelito a sopravvivere in mezzo alle grandi sofferenze, la fatica per riuscirci con creatività, resistenza e forza illimitate, superando enormi ostacoli, l’abbiamo chiamata la santità primordiale. Paragonata a quella ufficiale, di questa santità non si dice ancora quello che in essa c’è di libertà o necessità, di virtù o di obbligo, di grazia o merito. Non ha motivo di essere accompagnata da virtù eroiche, però esprime una vita interamente eroica. Questa santità primordiale invita a dare e ricevere gli uni agli altri e gli uni dagli altri, e alla gioia di essere umani gli uni con gli altri”.

5. “Dov’è Dio?”. Sulla croce

Questo mistero di speranza e dignità in mezzo alle catastrofi ci porta al mistero di Dio. Iniziamo ricordando, se per caso qualche lettore dovesse pensarlo, che Dio non invia catastrofi per punire gli esseri umani, come proclamano alcuni. Tanto meno sono annunciate dalla Bibbia, come predicano altri. La previsione più certa è quella di Matteo 25: “la salvezza e la condanna dipendono dal servire o meno il povero”.

Certo abbonda un sentimento religioso per cui “davanti alle cose di Dio non possiamo fare molto”. È la fede rispettosa. Però non impedisce di chiedere e contestare, come Giobbe, come Gesù sulla croce, “Dio mio, Dio mio perché ci hai abbandonato”. È la teodicea di cui parlano i teologi.

Qualunque sia la risposta o il silenzio di Dio che ascoltiamo, è bene ricordare in queste situazioni quello che Rutilio Grande diceva ai contadini di Aguilares: “Dio non sta in un’amaca nel cielo”. Ai nostri giorni sta in mezzo alle sofferenze e alle vittime. Non per benedirle e giustificarle, ma per dire che egli non vuole rimanere piacevolmente in cielo quando i suoi figli e figlie, i suoi più cari, i poveri, soffrono su questa terra.

Questo è un linguaggio simbolico. Con esso si intende dire che Dio ama veramente le vittime di questo mondo. Si potrà credere o no in questo Dio, gli si potrà chiedere “perché?”, soprattutto quelli che sono rimasti senza niente, senza la loro casetta, i loro figli, i loro genitori. Si potrà dubitare della sua onnipotenza, però non lo si potrà accusare di indifferenza. Un grande teologo tedesco diceva in mezzo agli orrori della seconda guerra mondiale: “solo un Dio così, che soffre insieme a noi, può salvarci”.

6. “Far scendere dalla croce i crocifissi”.

Il comandamento di Dio Quello che abbiamo finito di dire non è l’ultima parola di Dio in questi giorni. La sua ultima parola – e, per chi non è credente, l’ultima parola della coscienza – è un’esigenza che – se ci si perdona l’audacia – potrebbe essere questa:

“Salvate questo mondo. Non c’è niente di più urgente né di più importante. Non pensate che vi state dimenticando di me mentre date accoglienza alle persone danneggiate, raccogliete e sotterrate i cadaveri, consolate i loro familiari. Mi siete più vicini che mai...  Studiate, cercate e trovate, per amore del mio nome, soluzioni di verità per prevenire e affrontare le catastrofi… Finitela con la corruzione e la menzogna, governate con giustizia e onoratezza, senza scappatoie... E non vi riempite la bocca gridando democrazia, globalizzazione. E imparate dal mio inviato Geremia. Sgridò coloro che operavano male e si scusavano gridando ‘tempio di Gerusalemme, tempio di Gerusalemme’. Dico a voi quello che Geremia disse loro: ‘Quello che vuole Jahvé è che miglioriate la vostra condotta e le vostre opere, che facciate giustizia, che non opprimiate il forestiero, l’orfano, la vedova’. Oggi vi dico: ‘fate scendere dalla croce i crocifissi!’”.

7. E gli anniversari dei martiri?

Queste riflessioni riguardavano i martiri dell’Uca del 16 novembre e le quattro religiose nordamericane del 2 dicembre. A quell’epoca le vittime morivano violentemente per mano dei carnefici. Quelle di questi giorni sono morte o continuano a soffrire, in buona parte per la negligenza, la corruzione, l’ambizione egoista che corrode lentamente il nostro Paese. E di questo abbiamo parlato.  Però non dimentichiamo che anni fa ci furono martiri perché c’erano vittime, e quelli le difesero fino alla fine, dando la loro vita. In questi giorni non c’è miglior modo di ricordarli che soccorrendo e consolando le vittime della natura, difendendole da strutture inadeguate e ingiuste e da ogni egoismo. Alimentando giustizia e vita, e soprattutto speranza

 

Jon Sobrino, teologo della liberazione,  dall’agenzia Brasiliana “adital” 11 ottobre 2005 - diffuso dall’Ass. Partenia.