Paura delle donne e violenza degli uomini


Per quanto ci proviamo con ostinazione, ogni volta che si alza la cosiddetta «emergenza stupro» facciamo fatica a tener fermo il punto cruciale, ovvero che la violenza sessuale è un reato appunto sessuale e sessuato, commesso da uomini su donne (o, più raramente, su altri uomini). Di emergenza in emergenza, questa barra tende sempre a spostarsi e la questione sfuma, da questione sessuale in questione sociale, o etnica, o securitaria, in cui ne va delle condizioni in cui si vive, del razzismo emergente, dell'insicurezza reale o percepita: tutti contorni importanti, che rischiano però di subissare il punto cruciale di cui sopra, favorendone quando non legittimandone la rimozione (maschile, a destra e a sinistra). Sul punto cruciale fa luce l'intervento di Tamar Pitch che apre l'ultimo numero della rivista «Studi sulla questione criminale» (Carocci), intitolato «Ginocidio. La violenza maschile contro le donne» (gli altri interventi sono di Giuditta Creazzo, Encarna Bodelòn, Elena Larrauri, Federica Resta, Ana Laura Sabadell, Barbara Spinelli: se ne discute questo pomeriggio a Roma, nella sala della pace della Provincia alle 17.30). Più che dello stupro - ormai codificato nel senso comune perlopiù come reato di strada commesso da sconosciuti - la rivista mette a fuoco il ben più largo arco di violenze commesse da uomini su donne, in Italia e altrove, frequentemente in famiglia e perlopiù da uomini che con le donne che maltrattano hanno, o hanno avuto, una relazione, familiare o sentimentale.
E' quest'ultimo il dato da cui partire, perché dice che la violenza maschile contro le donne si inscrive oggi, prima che in un contesto sociale, in un contesto dei rapporti fra i sessi, ed è questo contesto che va indagato e interrogato. La tesi centrale di Pitch è netta: «la violenza maschile contro le donne è indizio non del patriarcato, ma della sua crisi». Una crisi i cui ingredienti sono da un lato la libertà femminile guadagnata, dall'altro il crollo della maschilità tradizionale, che si manifesta in una «impotenza non solo fisica ma ormai pienamente simbolica», che alla libertà femminile reagisce per l'appunto con la violenza: «ciò che viene chiamato violenza (maschile) si estende, si allarga, a misura che le donne acquisiscono libertà e quote di potere».
Se questo è il nocciolo, bisogna chiarire che non si tratta di un nocciolo «privato», ma di un nucleo simbolico che irradia ad amplissimo raggio il sociale e il politico. In primo luogo, la crisi e l'impotenza della virilità tradizionale che si arma di violenza riverbera sull'oscillazione fra le due modalità della politica oggi prevalenti, ovvero fra «una politica timida, sottomessa, tentennante, ambivalente» e «una politica tutta decisione ed eccezione». In secondo luogo, la crisi delle relazioni fra i sessi riverbera sullo scambio sociale e culturale, e in particolare sulla ben nota catena di questioni che vanno dalla xenofobia alla paranoia securitaria: ma è importante, concettualmente e politicamente, sottolineare che non è la violenza sessuale a procedere dalla tensioni razziali o securitarie, ma viceversa è il nocciolo delle relazioni sessuali a delineare i nuovi contorni delle questioni razziali e securitarie.
Come? Per capirlo occorre, intanto, decostruire il sentimento della paura. Agitata nel dibattito pubblico come sentimento generico, essa è invece attraversata in modo sostanziale da linee di genere. Per un verso, nelle donne la paura è e resta soprattutto paura degli uomini: dell'essere umano di sesso maschile, quale che sia la sua etnia o il colore della sua pelle. Per l'altro verso, in tempi di crisi del patriarcato si rinnova negli uomini un'antica paura delle donne: «Le donne sono nell'immaginario collettivo depositarie del futuro, della continuità dell'identità culturale e nazionale. E allora bisogna tenerle sotto controllo, tanto più quanto più, come oggi, dispongono di una certa libertà sessuale e riproduttiva. Insomma, la paura della libertà delle donne è strettamente connessa a quella paura del futuro e del 'diverso' che spinge alla ricerca o all'invenzione di identità culturali pseudo-omogenee, pseudo-tradizionali». In risposta a questa paura, si maltrattano le donne, meglio se ex partner, e contestualmente si criminalizza «l'altro» uomo, lo straniero, che potenzialmente insidia le «nostre» donne. Più in generale, «paura, creazione di 'comunità di complici', esaltazione della famiglia tradizionale, ricerca di identità 'di sangue e suolo' riposano tutte sul controllo, la disciplina, la violenza sulle donne. La storia sembra antica, ma lo è solo in parte, perché è proprio quando, come adesso, le comunità si rivelano illusorie, le famiglie inesorabilmente plurali e diversificate, i legami costitutivamente fragili, che il controllo diventa violenza esplicita, segno di impotenza e frustrazione piuttosto che di un senso di autorità legittima». Ed è allora, va da sé, che la politica della sicurezza cerca nell'emergenzialismo e nel decisionismo il succedaneo dell'autorità perduta.

 

 Ida Dominijanni       Il manifesto 3/3/2009