Un intellettuale che ha insegnato come la politica della sinistra dovesse essere fondata su una profonda tensione morale. Per questo l'iniziativa del comune di Roma di riaprire l'inchiesta sul suo omicidio è un dovere politico
Sono molto d'accordo con l'appello lanciato dal sindaco di Roma Walter Veltroni
per la riapertura dell'inchiesta sull'assassinio di Pier Paolo Pasolini.
C'è un risarcimento che tutti dobbiamo ad uno dei più grandi intellettuali che
il nostro paese abbia mai avuto ed è la ricerca della verità sulla sua morte
coperta, come molte morti in questo paese, da troppi lati oscuri. A più di
trent'anni da quel maledetto giorno di novembre è sempre più evidente che la
"verità" di allora non è né credibile né accettabile.
Roma che ha avuto tanto da Pasolini si adopera giustamente con il suo sindaco
affinché la giustizia chiarisca ogni mistero.
Chi visse quei momenti non può dimenticare lo stupore, l'incredulità di
fronte alla notizia dell'assassinio di Pasolini. Lo sbigottimento e il dolore
non impedivano però di comprendere come ci trovassimo di fronte ad un fatto
sconvolgente, a qualcosa che non era dissimile dalle stragi fasciste che avevano
insanguinato l'Italia negli anni precedenti.
Tutti sentivamo istintivamente che, dietro i particolari crudeli del fatto di
cronaca, si fosse consumato un delitto che aveva il chiaro significato di
mettere a tacere una voce scomoda, libera, un intellettuale che aveva ed
esprimeva una lucida, intransigente visione sulla condizione della società
italiana. Pochi credettero al gesto violento del balordo della profonda
periferia romana.
Solo poco tempo fa Pelosi si è deciso a dire che la verità non era quella che
emerse al processo, senza spiegare bene cosa avvenne veramente.
Guardando oltre la cronaca l'assassinio di Pasolini sembrò già allora, e sembra
ancor di più oggi, un attacco violento a quella cultura che contribuì negli anni
‘60 e ‘70 a far crescere la coscienza civile e lo spirito pubblico del nostro
paese; a quella cultura che provincializzò l'Italietta stracciona che seppe
mettere in discussione gli equilibri e il modello culturale dominante.
Veltroni ha ricordato il rapporto del tutto precipuo che nei primi anni ‘70 si stabilì tra Pasolini e la federazione giovanile comunista di Roma. Fu un incontro importante in cui politica e cultura trovarono una grande sintonia che produsse risultati di grande rilievo. Fu quello il modo per comprendere con nuovi strumenti e nuovi approcci i cambiamenti, i fermenti culturali della società italiana che in quegli anni visse un grande spostamento a sinistra e la conquista di importanti diritti civili e sociali che oggi sono messi in grave pericolo.
Ricordo ancora con emozione il fascino delle discussioni con Pasolini, che una volta ci accolse nella sua casa all'Eur. Eravamo seduti nel suo salotto colmo di libri e con grandi finestre da cui era possibile ammirare un'ansa del Tevere. Da quel colloquio gioviale e appassionato scaturì una lunga intervista che venne pubblicata su uno dei primi numeri di "Roma Giovani", la rivista ideata dai giovani comunisti romani e che rappresentò uno strumento decisivo per parlare e indagare i nuovi linguaggi della modernità, in primo luogo delle masse giovanile che in quegli anni erano quotidianamente nelle piazze e nelle strade delle grandi e piccole città per rivendicare i propri diritti e nuovi spazi di democrazia.
Il rigore pasoliniano ci aiutava a comprendere come la politica della sinistra dovesse essere una idea e una pratica fondate su una profonda tensione morale, sulla coerenza, su una idea forte di trasformazione del mondo. Un richiamo potente alla passione civile e alla ragione vigile. Come il suo ultimo film Salò, che vedemmo per primi in una saletta della sua casa cinematografica e che egli aveva voluto dedicare proprio ai giovani comunisti.
Quante volte in questi anni ci siamo sentiti dire o ci siamo detti che nella cultura italiana, anche oggi, ci manca una voce come quella di Pasolini. Manca una voce forte (per dirla con Severino), "una increspatura del mito", dove il mito è la realtà che sembra immutabile e incapace di trasformazione. Un increspatura o un graffio che solo la ragione critica e lo scritto corsaro può mettere in campo, come Pasolini seppe donarci. Egli e la sua opera stanno nella grande scia tutta italiana che affonda le radici nella Ginestra di Leopardi, nella Persuasione e la retorica del goriziano Carlo Michelstaedter, nei grandi moralisti che ci hanno sempre richiamato visceralmente all'impegno e alla coerenza delle nostre scelte personali e collettive.
Giorgio Mele, Senatore Sinistra Democratica Aprile online 21 giugno 2007