Pasolini, un profeta in cerca di prove
Forse, Pier Paolo
Pasolini sapeva. Sapeva davvero. E molte cose. Forse era entrato in possesso di
qualcosa di più dei semplici fatti. Aveva, insomma, dati, elementi, prove. Sì,
prove. Prove esatte, prove incontrovertibili. Prove da mandare in carcere alcuni
intoccabili. Forse possedeva la verità sui misteri e i misfatti del potere.
Meglio ancora: del «Palazzo». Forse, Pasolini sapeva davvero. E molto. E dunque
il suo lavoro di scrittore custodiva qualcosa di più della semplice affermazione
della profezia. Nel senso che il Profeta, in fondo, resta un semplice mistico,
mentre nel caso di Pasolini, dell’ultimo Pasolini, potrebbe esserci qualcosa di
più, un lavoro quasi da inquirente. Un’intuizione politica, giornalistica,
giudiziaria iniziale, e da qui l’avvio per la ricerca di un filone di indagini
che, movendo dalla crisi del petrolio, lo avrebbe portato a scoprire alcune
verità altrimenti taciute: i nomi stessi dei colpevoli. Se le cose stanno così,
c’era qualcosa di più di una semplice invettiva in quel suo memorabile articolo
apparso sul Corriere della Sera nel 1974, un capolavoro di chiarezza politica
intitolato"Il romanzo delle stragi", lo stesso pezzo dove egli, il nostro Pasolini,
dichiara appunto di sapere chiaramente: «Io so. Io so i nomi dei responsabili
delle stragi».
Forse, Pasolini custodiva
davvero le «sue» prove, forse aveva trovato la verità. Forse. Petrolio, il
suo romanzo uscito postumo, concepito come un grande affresco, come
opera-testamento, ma anche come cattedrale letteraria, avrebbe dovuto tenere
insieme, accanto all’autobiografia, tutto questo materiale «giudiziario», un
romanzo-indagine, e dunque le prove. Un romanzo nel quale ripercorrere anche la
vicenda della morte di Enrico Mattei. Mistero crocevia, mistero che tiene con sé
altri misteri di Stato. Mistero-binario morto d’ogni verità che riguardi il
nostro bene comune, la repubblica appunto. Forse. Il dubbio è d’obbligo, lo si è
forse già detto. È d’obbligo poiché la dietrologia non fa bene alla verità, e
magari non serve neppure al suo reale accertamento. A maggior ragione più di
trent’anni dopo i fatti. Tuttavia, a sentire alcune testimonianze di persone che
ebbero un rapporto di frequentazione con lo scrittore nelle sue ultime
settimane, trapela la certezza di una modalità di lavoro che fa supporre
qualcosa di singolare. L’uomo, lo scrittore, l’intellettuale infatti scavava,
prendeva nota, cercava fonti, documenti, era sulle tracce del petrolio con i
suoi nomi. Il lavoro del filologo o dello studioso della poesia popolare aveva
lasciato il posto ad altro. C’è in proposito, sempre citando Petrolio, un
capitolo esemplare. Per l’attenzione prestata da Pasolini ai dettagli e perfino
alla descrizione dei nomi e finache dei volti. Si tratta delle pagine che
raccontano iperrealisticamente un ricevimento al Quirinale. Forse, se letto fra
le righe, anche quel capitolo può dirci qualcosa sulla realtà e le intenzioni
dell’ultimo Pasolini. Forse.
E ribadiamo il forse,
perché, come si è già detto, la dietrologia, l’abitudine a trasformare ogni
fatto e ogni dato in un elemento indiziario in grado di condurre alla verità
quasi come in un’Apocalisse, lo dovremmo ormai sapere fin troppo bene, porta al
buio più assoluto. Porta a mettere nero su nero. Ciò che invece, ripensando a
quei giorni e all’uomo che più e meglio di ogni altro ha saputo rappresentare un
presidio di volontà civile, resta intatto è piuttosto la sensazione che Pasolini
abbia tentato con ogni mezzo legalmente consentito di trovare risposte laddove
altri avrebbe lasciato tutto sotto la campana di vetro di un colpevole e
interessato silenzio, un silenzio, nel migliore dei casi, qualunquistico. Un
silenzio che potrebbe essere definito il basso continuo, il pozzo nero della
storia della società italiana.
di Fulvio Abbate l'Unità, 9 agosto 2005