Il paradosso dei
cattolici
L'esistenza nella galassia cattolica di "cattolici democratici" è di per sé
stessa la dimostrazione di
una difficoltà non risolta nel rapporto tra democrazia e cattolicesimo. Se
la difficoltà non ci fosse,
l'aggettivo specificativo sarebbe superfluo. Il fatto che vi siano
cattolici che si auto-definiscono
democratici significa sì che il cattolicesimo è compatibile con la democrazia,
ma anche che la
democrazia non è coessenziale al cattolicesimo, perché esso contempla anche
l'antidemocrazia. Se
poi consideriamo che i cattolici democratici, per loro stesso riconoscimento,
nel loro mondo sono
oggi minoranza, la conclusione preoccupante è che, dalla maggioranza, le regole
della democrazia,
se sono accettate, lo sono non per adesione, ma per sopportazione o per
opportunità: se e finché non
si prospettino convenienze migliori.
Queste affermazioni possono sembrare temerarie, considerando il contributo
cattolico alla lotta di
liberazione, all'elaborazione della Costituzione e alla partecipazione alla vita
democratica nei
decenni che ne sono seguiti. Ma, per l'appunto, il mondo cattolico è una
galassia dove c'è di tutto e
quel contributo alla democrazia, che nessuno potrebbe negare o sminuire, si
accompagna al
permanere di atteggiamenti d'altro genere, riserve mentali e aperte
contraddizioni. Una frattura
profonda ha separato, fin dalle origini, la democrazia moderna dal mondo
cattolico e questa frattura,
evidentemente, non è completamente sanata. La ricorrente accusa di "relativismo"
rispetto ai
"valori" è solo una denuncia aggiornata dei "deliramenti" democratici d'un tempo
(enciclica
Diuturnum illud del 1881).
Nel contesto di questa diffidenza antica si sviluppa la
testimonianza che Rosy Bindi, una delle voci
più impegnate a difendere l'identità e l'eredità dei cattolici democratici, ha
reso in un libro-intervista
con Giovanna Casadio (Quel che è di Cesare, Laterza, pagg. 144, € 10). È
una testimonianza di quel
che la fede cristiana può portare come contributo all'ethos democratico.
Ma è anche la prova della
tensione che deriva non – come talora erroneamente si dice - dall'essere
cittadino e credente al
tempo stesso (come se la democrazia dovesse essere necessariamente atea o
agnostica), ma
dall'essere al tempo stesso cittadino e membro della Chiesa cattolica,
quando essa – per così dire –
si pone (in misura più o meno stringente, si è sempre posta) come organizzazione
dell'obbedienza
nelle cose temporali. Non sono le fedi, laiche o religiose, a creare difficoltà.
Esse, in quanto vissute
nella libertà e nella responsabilità, non impediscono la democrazia, anzi
l'arricchiscono. È nella
duplice appartenenza allo Stato democratico e alla Chiesa come potere
disciplinare, la radice della
difficoltà. Due lealtà possono entrare in conflitto; doveri diversi possono
contrapporsi. Il cittadino,
per rispettare se stesso, dovrebbe negare il credente; il credente, per non
contraddire il suo vincolo
confessionale, dovrebbe negare il cittadino.
Non è vero, infatti, che le due appartenenze si completino a vicenda. Il
conflitto è in agguato. La
democrazia presuppone l'apertura al dialogo fecondo, cioè non per finta, in
vista di accordi e, ove
occorra, di compromessi. Esige, in una parola, atteggiamenti non dogmatici
ma laici.
L'appartenenza alla Chiesa può invece creare situazioni drammatiche di aut-aut:
o dentro o fuori, o
obbedienza o tradimento e scomunica. Due logiche che, quando si scontrano
radicalmente, creano
difficoltà e sofferenze che possono risolversi solo con la capitolazione di una
delle due parti. Anche
il famoso caso, citato anche nell'Intervista, di Alcide De Gasperi che resiste
al Diktat politico del
Papa minacciando le dimissioni da presidente del Consiglio, ne è la riprova. Fu
Pio XII a recedere,
cioè a capitolare. Non fosse stato così, le dimissioni di De Gasperi, dal punto
di vista dei suoi doveri
civili sarebbero state non una dimostrazione di laicità, ma a sua volta una
capitolazione di fronte a
una pretesa clericale. Tra i doveri civili, non c'è infatti quello di
lasciare il proprio posto, se la
Chiesa si inalbera.
La riflessione di Rosy Bindi tocca molti problemi, di teoria e
di pratica politica, e li tocca in modo
tale da mostrare le possibilità d'integrazione del cattolicesimo democratico
nella vita politica
comune, al di là dello steccato confessionale. E mostra altresì il contributo di
umanità, giustizia e
solidarietà ch'esso è in grado di dare, un contributo al quale i non cattolici
non possono essere
indifferenti. Ma questa riflessione non tace le difficoltà che derivano dalla
posizione politica che la
Chiesa Cattolica è venuta assumendo negli ultimi anni, con l'allontanamento
progressivo dallo spirito del Concilio Vaticano II.
È un regresso, le cui conseguenze sono denunciate a chiare e
brucianti lettere, con espliciti riferimenti alla politica della CEI del
cardinal Ruini: «Purtroppo,
smarrita la memoria storica e rimossi i fondamenti della Costituzione e del
Concilio Vaticano II,
siamo finiti dentro la contraddizione strumentale che la destra sta facendo
della religione. C'è un
ritorno al passato, abbiamo bruciato un secolo di storia». C'è solo da
aggiungere due cose: che
"quest'uso blasfemo della fede" non è solo della "destra" e trova spesso la
calda riconoscenza della
gerarchia ecclesiastica. Gli ambienti curiali, cattolici e atei, denigrano
questo genere di considerazioni come trita lamentazione sul "concilio tradito".
Non è così. È invece la puntuale registrazione di una
strategia fatta innanzitutto di irrigidimenti disciplinari nei confronti
dei fedeli, frequentemente richiamati
all'ordine gerarchico perfino in occasioni elettorali, e poi di accordi di
potere tra vertici della Chiesa
e vertici politici, dove l'obbedienza prestata dai cattolici alla gerarchia
diventa strumento di
pressione, se non di ricatto, nei confronti dell'autorità civile. Tutto questo
si è visto all'opera con i
"non possumus", i "richiami impegnativi", l'appoggio o il ritiro
dell'appoggio a questa o quella
formazione politica, a questo o quel governo, fino a condizionarne l'esistenza o
la sopravvivenza.
Una Chiesa così potrà pure richiamarsi, davanti al popolo dei suoi credenti,
alla propria funzione di
traghettatrice delle loro anime nel mondo che ha da venire; ma, per l'intanto
nel mondo che c'è, essa
è una struttura di potere (cioè di peccato), che divide gli animi e fa della
fede religiosa, usata in quei
modi, una ragione di conflitto.
Rosy Bindi cita un insegnamento di Pierre Claverie, il domenicano ucciso nel
1996 in Algeria, a
causa del suo impegno alla comprensione tra i popoli, un insegnamento che
contiene la chiave per
comprendere come una fede religiosa può integrarsi nella democrazia, cioè in una
"vita buona" per
tutti: «Esiste solo un'umanità plurale e quando pretendiamo di possedere
la verità o di parlare in
nome della verità, cadiamo nel totalitarismo e nell'esclusione. Nessuno possiede
la verità, ognuno la
cerca (…) spigolando nelle altre culture, negli altri tipi di umanità, ciò che
anche gli altri hanno
compreso, hanno cercato nel loro cammino, verso la verità: Sono credente, credo
che c'è un Dio, ma
non pretendo di possedere quel Dio. Non si possiede Dio. Non si possiede la
verità e io ho bisogno
della verità degli altri».
Questo è l'atteggiamento di umiltà e, al tempo stesso, di
fiducia negli esseri umani e di disponibilità
al lavoro comune che costituiva l'anima del Concilio Vaticano II, di cui la
Gaudium et spes è
l'espressione: la libertà dei credenti in re sociali, accanto agli uomini di
buona volontà, la loro
responsabilità di fronte a Dio e ai propri fratelli, il divieto di invocare
l'autorità della Chiesa a
sostegno delle loro posizioni, divieto che, simmetricamente, non poteva non
implicare l'astensione
della Chiesa stessa da interventi vincolanti la coscienza dei cattolici. La
presenza cattolica nelle
società umane era concepita come lievito che opera dall'interno, dipendendo
dalla forza persuasiva
della testimonianza che può venire dalla vita cristiana, vissuta con coerenza.
C'è un'immagine,
nell'enciclica Ecclesiam suam (1964) del papa Paolo VI che esprime bene
quest'idea: i centri
concentrici in cui si diffonde la testimonianza cristiana, fino a raggiungere
l'intera umanità.
Nell'insegnamento del Concilio, quella che, legittimamente, per i credenti è
verità si trasforma, nei confronti della società nel suo complesso, in esempio,
carità.
È l'unico modo per porsi in posizione amichevole.
Invece, ora assistiamo, nell'insegnamento del papa Benedetto XVI, all'insistenza
sempre più marcata sulla verità unita in binomio alla ragione: la verità della
Chiesa è unica verità di
ragione, e la ragione è universale. Così, la verità cattolica pretende che non
solo i credenti ma anche
i non credenti pieghino il ginocchio. Quest'audace operazione teologica
si trasforma in una pretesa
universalistica della Chiesa. I non credenti, per così dire, impenitenti,
diventano nemici non solo
della verità, ma anche della ragione. Un innegabile capovolgimento del Concilio.
In questo contesto si spiega l'invito che il papa Benedetto XVI rivolge ai non
credenti affinché essi,
per quanto privi di fede, si adattino ad agire veluti si Deus daretur,
come se Dio (anche per loro)
esistesse. Non sarebbe la fede a esigerlo, ma la ragione. A questo
detto papale Bindi, nelle pagine
finali, esprime la sua adesione. Questo è forse l'unico mio punto di dissenso,
tra le tante cose che
l'intervista ci dice e che testimoniano dell'appassionata ricerca dell'Autrice
circa il modo d'essere,
senza contraddizione, cristiana e cittadina, insieme. Gli inviti al come se sono
inaccettabili. L'agire
come se Dio esistesse è una provocazione nei confronti dei non credenti.
Essi dovrebbero
contraddire la loro coscienza e seguire non la loro ragione, ma quella
proclamata dalla Chiesa come
verità. Il rispetto reciproco non è compatibile con questo genere di inviti.
Gustavo Zagrebelsky
la Repubblica 6 ottobre 2009