Il papa in sinagoga
e i silenzi di Pio XII
In un saggio pubblicato su un numero speciale di MicroMega di qualche anno fa
Joseph Ratzinger
descriveva l’atteggiamento dell’uomo contemporaneo nei confronti della religione
con la celebre
parabola buddista dell’elefante e dei ciechi.
Un re dell’India del Nord radunò i ciechi del suo villaggio attorno ad un
elefante.
Ad ognuno di loro faceva toccare una parte diversa
dell’animale e poi gli chiedeva di descrivere come era fatto. “È
come un cesto intrecciato…”; “è come un vaso…”; “è come un pilastro…”: a seconda
di quale
punto toccavano l’idea che si potevano fare della forma dell’animale era
ovviamente diversa.
E allora i ciechi cominciarono a litigare: “L’elefante è
così”, “No! È così”, ecc.
“La disputa fra religioni”, scriveva Ratzinger, “sembra agli uomini di oggi come
questa disputa tra
ciechi nati. Perché di fronte al mistero di Dio siamo nati ciechi, sembra. Per
il pensiero
contemporaneo il cristianesimo non si trova assolutamente in una situazione più
favorevole rispetto
alle altre”. Il cristianesimo sarebbe quindi “solo il lato del volto di Dio
rivolto verso l’Europa” e
sarebbe facile “ridurre i contenuti cristiani a simboli, non attribuire loro
nessuna verità maggiore di
quella dei miti della storia delle religioni – considerarli come una modalità
dell’esperienza religiosa
che dovrebbe collocarsi umilmente a fianco di altre”.
Ecco, la parabola dell’elefante e dei ciechi serve a spiegare
cosa non è il cristianesimo per
Ratzinger, a dispetto di quella che tende a essere l’esperienza religiosa, anche
l’esperienza cristiana,
per l’uomo contemporaneo.
Secondo Benedetto XVI il cristianesimo non può essere considerato solo “il lato
del volto di Dio
rivolto verso l’Europa”: esso non può privarsi di quella “pretesa alla verità”,
di quella aspirazione
all’essere “la religio vera” e al tempo stesso “la vera philosophia”,
che sono proprie
dell’universalismo cristiano sin dall’interpretazione che san Paolo dette della
figura di Cristo.
Questa impostazione teologica – un “esclusivismo veritativo” che si contrappone
al sincretismo
della sensibilità contemporanea (l’aborrito relativismo applicato alla
spiritualità) – la ritroviamo
anche nei testi del più recente magistero ufficiale della Chiesa, dalla
Dominus Jesus redatta da
Ratzinger nel 2000 in qualità di Prefetto della Congregazione per la dottrina
della Fede, alle
“Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”
(29 giugno 2007), nelle
quali si afferma che le comunità cristiane nate dalla riforma del XVI secolo non
possono “essere
chiamate ‘Chiese’ in senso proprio”.
È una prospettiva molto distante da quella del Concilio,
benché la continuità con esso sia
costantemente ribadita a parole. Ma solo tenendo conto di questa prospettiva è
possibile
comprendere quale sia il grande (e insormontabile) ostacolo che si contrappone
ad un autentico
dialogo interreligioso ed ecumenico fra la Chiesa di Ratzinger e le altre
confessioni religiose
(comprese le altre confessioni e denominazioni cristiane).
Quanto al dialogo con il mondo ebraico, a questi limiti generali – dei quali si
coglie il riflesso anche
nel ripristino della preghiera per la conversione degli ebrei a seguito della
reintroduzione del rito
tridentino operata dal Motu proprio del luglio 2007 – si sommano una serie di
problemi “politici”
che sono ancora tutti sul tappeto, nella loro gravità, anche e soprattutto dopo
la visita di Benedetto
XVI alla Sinagoga di Roma.
Andandosi a sfogliare la stampa israeliana ci si può rendere conto di quanto sia
diversa la lettura
che di questo incontro è stata data a Gerusalemme rispetto all’Italia. Mentre
qui da noi i giornali
strillavano “Vince il dialogo” o “Storico incontro alla sinagoga”, Haaretz
andava al sodo con questo
titolo brusco ma nient’affatto ingannevole. “Alla sinagoga di Roma il Papa
difende il Vaticano
dell'era nazista”. Il presidente della comunità ebraica romana Riccardo
Pacifici ha richiamato con
garbo ma con fermezza la questione di Pio XII (del quale è in corso il processo
di canonizzazione):
“Il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah, duole ancora come un atto
mancato”, ha detto.
Ma Ratzinger non ha nemmeno pronunciato il nome di papa
Pacelli, limitandosi a ribadire che
“molti rimasero indifferenti” di fronte alla tragedia della Shoah, “ma molti,
anche fra i Cattolici
italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con
coraggio, aprendo le
braccia per soccorrere gli Ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della
propria vita, e
meritando una gratitudine perenne”. “Anche la Sede Apostolica – ha aggiunto
Raztinger ribadendo
in maniera nemmeno troppo implicita la sua posizione su questo punto – svolse
un’azione di
soccorso, spesso nascosta e discreta”.
Insomma, aveva ragione il rabbino Giuseppe Laras, quando, dichiarando che
non avrebbe
partecipato all’incontro, previde che da esso non sarebbe scaturito nulla di
positivo.
Emilio Carnevali in “Micromega-online” del 20 gennaio
2010