IL PAPA E LA “SAPIENZA”
Il giorno in cui il Sommo Pontefice sarà disponibile (come filosofo qual egli ricorda spesso di essere) a mettere pubblicamente in discussione persino la resurrezione di Cristo, discutendone da filosofo, e non da custode del sigillo di Pietro, ebbene, che egli ben venga in qualunque contesto del sapere non-ecclesiale; potrebbe forse convincere tutti, o forse nessuno, ma almeno rivitalizzerebbe un certo spirito del cristianesimo delle origini, quando i padri della chiesa dovevano confrontarsi pubblicamente con tutto il Pantheon di quella tarda romanità che, per quanto decadente e corrotta, aveva ancora vivo quel senso e quel gusto della discussione e della critica speculativa che ha da allora (pur con successive cadute) animato la civiltà dell’Occidente.
Ha suscitato vive polemiche
l’annunciato, e poi disdetto, intervento di Papa Benedetto XVI alla Università
“La Sapienza” di Roma (ove era stato invitato a tenere una allocuzione, se non
una “lectio magistralis”); l’appuntamento è stato disdetto a seguito di proteste
provenienti da una pur non cospicua parte di docenti e discenti dell’Ateneo (per
una presunta “invadenza” della dogmatica autorità ecclesiale in quel “libero
tempio” del “libero sapere” che è l’Università), il che, per converso, ha
indotto molti (forse non senza alcun fondamento) a denunciare, sulla stampa, una
sorta di preconcetta intolleranza laica nei confronti del Pontefice.
Quest’ultimo, a sua volta, ha reso noto a mezzo stampa il testo del discorso che
avrebbe pronunciato in seno all’Ateneo, ove l’appuntamento non fosse stato
disdetto.
Tale testo ha ricevuto positivi commenti sia da parte cattolica che da parte
laica, trattandosi, in effetti, di un testo la cui forma (invero raffinata e
garbata) appare ispirata a disponibilità colloquiale, ed il cui contenuto può
riassumersi nella convinzione che tanto i credenti, quanto i laici, dovrebbero e
potrebbero, quando si incontrano sul terreno del sapere, esser consonanti sul
comun denominatore della tensione verso la Verità, quale scopo del sapere; nel
testo in questione si dice pure, in sostanza, che la ragione umana non può,
nell’interpretare l’essenza del reale, pretendere di partire ogni volta da zero,
ossia da se stessa, essendo invece i risultati attendibili della ragione quelli
consacrati dalla Tradizione.
Prescindendo da ogni questione circa la probabile inopportunità o scortesia
delle forme della predetta polemica laicista, va però detto che il problema che
si pone, ancora una volta, è quello del rapporto fra “sapere” e “verità”, e fra
“ragione” e “tradizione”.
Per il Pontefice, quale depositario di immutabili princìpi della tradizione
ecclesiale, non può esservi dubbio che il sapere non è fine in sé, ma strumento
di Verità; neppure può esservi (per Lui) dubbio che la Verità non è un “quid in
fieri”, un “work in progress”, derivando invece essa la sua essenza da una fonte
che ne ha dettato una volta per tutte (per via di rivelazione) i fondamenti.
Qui è il nodo del problema, e qui si pone la questione su quale senso od utilità
avrebbe mai potuto avere l’intervento del Pontefice (in quanto Pontefice) in
quell’Ateneo.
Contrariamente all’assunto del Pontefice, va infatti detto che i sapienti, se li
intendiamo come coloro che ricercano il sapere, non possono, nella loro ricerca,
prescindere dal dubbio, che è motore della stessa ricerca e metodo di scelta fra
le alternative conoscitive, tutte convalidabili o falsificabili attraverso il
confronto fra percorsi argomentativi ed investigativi della logica, od
attraverso verifiche sperimentali, ove si tratti “de rebus naturae”: il
dubbio è dunque, per chi è alla ricerca del sapere, l’attrezzo
fondamentale, come il martello per il fabbro o la bilancia per il mercante: in
difetto di quello strumento conoscitivo che è dato dal dubbio, non ha senso
parlare di ricerca della verità, poiché in tal caso la verità si intende già
data, e dunque non v’è nulla da ricercare, ma solo da ricapitolare, od al
massimo chiosare.
Se due sapienti, alla ricerca del vero, procedono per percorsi non coincidenti,
un dialogo o confronto fra loro può aver senso solo a patto che ciascuno dei due
sia disposto, nella prospettiva dialogica della ricerca speculativa, a mettere
in gioco ed in discussione i presupposti del proprio rispettivo percorso, e le
proprie rispettive “ipotesi” di verità, accettando il rischio di una
“falsificazione” di tali ipotesi, se tale falsificazione sia frutto di un
confronto critico attraverso l’esercizio di razionali metodi di indagine
costituenti le regole del gioco speculativo accettato.
Esemplificando in termini elementari, poniamo che due presocratici, amanti del
sapere, e disposti al confronto critico e speculativo, discutano dell’essenza
delle cose, sostenendo l’uno consistere essa nell’essere, l’altro nel divenire:
l’uno e l’altro, se realmente vogliono interagire nello sforzo critico verso il
vero, dovranno esser disposti ad accettare il punto di vista dell’interlocutore,
ed a rinnegare il proprio, se attraverso il confronto (svoltosi con il mezzo
condiviso della ragione speculativa ed inquisitrice) sia emersa la prevalenza di
una ipotesi sull’altra.
Eguale disponibilità “a priori” a mettere in dubbio l’ipotesi di partenza
dovrebbe aversi fra due moderni fisici che discutano sulla natura ondulatoria o
corpuscolare della luce: una volta che si accetti una condivisa e concordata
metodologia di verifica razionale e/o sperimentale, il sostenitore della natura
ondulatoria della luce dovrà esser disposto, sin dall’inizio del confronto, ad
accettare l’eventuale risultato vincente della ipotesi corpuscolare, se esso sia
vincente perchè frutto di un metodo di confronto speculativo condiviso.
Orbene, se un cristiano ed un non credente discutono su Cristo, il confronto può
aver senso solo se il cristiano sia disposto (nella prospettiva del confronto) a
mettere in dubbio la esistenza od essenza di Cristo, e se a sua volta il non
credente sia disposto a porre in discussione la propria incredulità, accettando
il Cristo, laddove il confronto si svolga, anche qui, avvalendosi di un metodo
di ricerca e di confronto condiviso.
Il sapere filosofico occidentale è nato così, ed è andato avanti così:
attraverso il dubbio ed attraverso la discussione; nelle scuole greco-romane non
si insegnava che una cosa è bianca o nera, ma si addestravano i discenti a
sostenere prima che una cosa è bianca, e poi che è nera: per l’apprendimento
della tecnica del dubbio, e della ricerca attraverso la argomentazione
speculativa e la verifica logica od empirica.
Siamo dunque pervenuti ad una prima, graduale conclusione (di tipo alternativo)
riguardo agli interrogativi posti in premessa: o la verità è data (presupposta
e/o rivelata), oppure essa non è data, ed allora va ricercata e conquistata.
Nel primo caso ha un senso molto limitato porre il problema del rapporto fra
verità e sapere, poiché il secondo termine (il sapere) non può esser altro che
eterna ricapitolazione o spiegazione o descrizione della verità già data.
Nel secondo caso il sapere è tecnica della ricerca attraverso il metodo del
dubbio, ed allora la verità stessa, non essendo data “ab origine”, non può esser
mai “data” neppure dopo, ossia non può mai essere assunta come dato definitivo,
essendo immanente al sapere (“veritatem requirens”) la sua natura provvisoria e
progressiva: anche in tal caso il rapporto fra sapere e verità ha un senso
circoscritto, poiché il secondo termine (la verità) è un termine mobile,
indefinitamente in divenire, nella stessa misura in cui è “in progress” il
sapere, così come pure è mobile ed “in fieri” la personalità umana,
essenzialmente “storica”.
A questo punto occorre fare una scelta, trattandosi di posizioni nettamente
alternative, quindi inconciliabili.
Come ogni scelta umana, essa non può che dipendere da motivazioni umane.
E’ una scelta umanamente rispettabile quella di ancorarsi ad una verità
teologica “data” una volta per tutte, qualunque ne sia la fonte di rivelazione,
e quantunque la attendibilità di tale fonte non sia dimostrata, se non
autoreferenzialmente; Blaise Pascal diceva che la fede è una “scommessa”, e
nulla vi è di censurabile nello scommettere, tanto più che taluni scommettitori
vincono (ancorché altri dilapidino tutto il proprio avere).
Qui non stiamo ponendo in gioco, in generale, il problema della trascendenza e/o
del divino, poiché, in linea di principio, si può avere tensione verso il
“divino” (anche non necessariamente inteso come trascendente) pur senza
ancorarsi ad alcuna “rivelazione” (come nel caso del “deus sive natura”, e della
“natura naturans” di Spinoza): la questione si pone solo ove la tensione verso
il divino ed il trascendente sia ancorata ad una “verità rivelata” e data una
volta per sempre, mentre nulla vieta che si creda in Dio (alla maniera dei
‘teisti’ settecenteschi come Voltaire) senza ancorarsi ad alcuna Rivelazione, e
ricercando invece intorno alla idea del divino e/o del trascendente con la
stessa libertà di ricerca e di speculazione possibilista con la quale si
affrontano altri interrogativi, pure essenziali all’uomo.
Ma se si fa ancoraggio su di una idea del divino basata su una rivelazione
autoreferenziale, su una verità del divino che si assume discendente “ab alto”,
ciò costituisce in effetti una scommessa, che non si può escludere che possa
essere una scommessa vincente, come pure non si può escludere che sia ingenuo
“credere” (che in latino vuol dire “dare a credito”) incuranti del fatto che il
“credito” non sia garantito.
In effetti un accorto padre di famiglia, in genere, non fa prestiti a
sconosciuti, senza garanzie: ma può capitare che lo sconosciuto, che chiede che
si creda in lui, prometta vantaggi ed interessi talmente alti e succulenti (pura
e eterna felicità paradisiaca, o, per altri, fiumi di latte e miele con contorno
di odalische), che può esse difficile non rischiare a scommettere, visto che il
capitale dato “a credito” è fatto solo di un po’ di preghiere e di quella
osservanza di elementari precetti di solidarietà verso il prossimo, che comunque
dovrebbero appartenere, ed appartengono, alla natura (od alla morale naturale)
dell’uomo quale essere sociale.
Il problema che stiamo esaminando, dunque, non si pone, in generale, per chi
creda in una indeterminata ed invisibile realtà “trascendente” (in senso lato)
la dimensione empirica, che può esser essa stessa (il “dio ignoto”) oggetto di
ricerca “in interiore homine” e fra i segni del visibile (che potrebbe essere la
punta dell’ “iceberg” del reale); il problema si pone invece per coloro i quali
credono in una divinità che pretenda di esser “vera” in quanto “rivelata” una
volta per tutte, e che sia portatrice di una Verità (sul divino, sul mondo,
sull’uomo) che sia stata data attraverso un disvelamento “ab alto”, e che
escluda e neghi ogni alternativa ipotesi sulla essenza delle cose, e sul loro
essere trascendenti od immanenti.
A questo punto torniamo alle questioni di base: chi già possiede, od ha
ricevuto, per via di rivelazione, la Verità, non abbisogna di alcun sapere, se
non descrittivo, di quella Verità; chi ritiene di non possedere, o di non aver
ricevuto, per via di rivelazione, quella od altra verità data, ha bisogno del
sapere, perché il sapere stesso, nel suo naturale divenire, si identifica con la
unica possibile verità, una verità “in fieri”, ossia una verità coincidente con
il progredire relativo della storia umana, in consonanza con la natura della
psiche umana, che è desiderante e diveniente.
Vero è che la idea del “divenire” non necessariamente coincide con quella di
“progresso”, giacchè la stessa esperienza storica insegna che può esservi un
divenire regredente rispetto a taluni punti di vista; vero è però anche il fatto
che l’uomo, per sua costituzione bio-psicologica, è “naturaliter” proteso al
cambiamento ed al divenire, come del resto l’intero mondo naturale, del quale
l’uomo potrebbe definirsi il vertice consapevolmente diveniente.
Se l’uomo è dotato di braccia e di gambe, di apparato digerente e di apparato
visivo, ecc., è naturale che usi tali organi ed apparati; se l’uomo è dotato di
quell’organo che è la ragione, è naturale che la usi, ed è invece contro-natura
che non ne faccia uso; se la ragione confligge con la “fede” (nel senso che la
fede non è razionalmente giustificabile) è contro-natura aver fede in contrasto
con la ragione, la quale invece è cosa ed organo naturale.
Nè si può prescindere dal punto di vista naturale, non essendovene altro
accettabile od accertabile, se non “contra-naturam” o “praeter-naturam”, ma tale
altro punto di vista non potrebbe se non essere autoreferenziale: come, appunto,
le cosiddette verità rivelate “ab alto” , ove il presunto “alto” postula sé
stesso come indimostrata scaturigine.
Peraltro neppure si può dire che la “bontà” o meno dei percorsi della ragione
umana sia verificabile in base al fatto di essere essi o meno sedimentati in una
Tradizione (come pare evincersi dal precitato testo del Pontefice), posto che
l’essersi per lungo sedimentata una consuetudine di convinzioni non è garanzia
della loro aderenza alla ragione, che anzi procede spesso per salti e per
rivoluzioni; del resto, se la tradizione fosse garanzia di attendibilità, un
qualche eschimese potrebbe ben dire che il mondo nasce da una Grande Balena,
visto che da tempo immemorabile, da quelle parti, si è magari inclini a
crederlo; così pure paradossalmente si dovrebbe credere che il sole gira intorno
alla terra solo perché una tradizione scritturale plurimillenaria lo insegnava
(qui non pare fuor di luogo accennare alla mal rispolverata “questione”
galileiana: vero è che Galileo non aveva prove definitive dell’assetto
eliocentrico, vero però è anche che, ai nostri moderni occhi, non è ovviamente
accettabile l’idea di un “processo penale” avente ad oggetto i modi di
investigazione scientifica; la questione andava, caso mai, storicizzata, e non
forzosamente riattualizzata, parlando assurdamente di “processo giusto e
razionale”, in termini a-temporali ed in assoluto).
Fin qui non abbiamo fatto altro se non porre in semplice ordine logico (parliamo
di logica umana, non potendo esser marziani) alcune considerazioni che crediamo
siano di solare evidenza.
A questo punto, però, tirando le fila del discorso (che prende le mosse dal
mancato appuntamento del Pontefice con l’Ateneo romano), crediamo di poter
affermare quanto segue, pur senza alcuna pretesa di affiggere alcunché sui
battenti della cattedrale di Wittenberg:
1) vero è che il Pontefice era stato ufficialmente invitato dalle autorità
accademiche, e che, pertanto, è stato forse fuori luogo, da parte di taluni
docenti (lasciamo stare i discenti) dar vita ad una imbarazzante protesta.
2) altrettanto vero è, però, il fatto che non si capisce a che titolo, e con
quale utilità, il Sommo Pontefice sarebbe andato a tenere una allocuzione
magistrale presso la Università romana: se vi fosse stato invitato in qualità di
docente di filosofia, come a Ratisbona, la cosa sarebbe stata sensata, poiché,
in veste di filosofo, egli avrebbe potuto, al pari di ogni altro filosofo,
mettersi in gioco ed in discussione nel confronto dialettico, secondo i moduli
già sopra evidenziati; ma, andandovi in veste di Pontefice, depositario di una
Verità rivelata ed immutabile nei suoi princìpi, non avrebbe potuto mettere in
discussione nulla, e l’incontro non avrebbe dunque potuto avere gran senso,
posto che l’Università è invece, da sempre, sin dal medioevo, il tempio del
libero, ricercante e diveniente sapere, il luogo ove si discute, ed ove si
mettono in gioco ed in discussione tutti i principi (oltre che i prìncipi).
-il giorno in cui il Sommo Pontefice sarà disponibile (come filosofo qual egli
ricorda spesso di essere) a mettere pubblicamente in discussione persino la
resurrezione di Cristo, discutendone da filosofo, e non da custode del sigillo
di Pietro, ebbene, che egli ben venga in qualunque contesto del sapere
non-ecclesiale; potrebbe forse convincere tutti, o forse nessuno, ma almeno
rivitalizzerebbe un certo spirito del cristianesimo delle origini, quando i
padri della chiesa (che non potevano allora contare sulle vocianti moltitudini
preconfezionate a mezzo pullmann e sui miracolanti Padre-Pii) dovevano
confrontarsi pubblicamente con politeisti, manichei, zoroastristi, donatisti,
gnostici, mitraisti, circoncellioni, ecc., ossia con tutto il Pantheon (e con
tutto lo “a-theion”) di quella tarda romanità che, per quanto decadente e
corrotta, aveva ancora vivo quel senso e quel gusto della discussione e della
critica speculativa che ha da allora (pur con successive cadute) animato la
civiltà dell’Occidente.
Alessandro Centinaro da www.italialaica.it (21-1-2008)