Il papa e il profitto.
I paradossi dell’economia cristiana
«Il profitto è
naturalmente legittimo nella giusta misura, è necessario allo sviluppo
economico; ma il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido di
organizzazione economica». Lo ha detto qualche giorno fa Benedetto XVI. Qualcuno
potrebbe obiettare che se il profitto, cioè lo scopo dell'agire capitalistico,
«è necessario allo sviluppo economico », non si vede perché si debbano indicare
altri modelli validi, auspicandone l'attuazione. Ma sarebbe un'obiezione fuori
luogo. Il Pontefice trae infatti una conseguenza del tutto corretta, servendosi
di una logica su cui vado richiamando l'attenzione da decenni.
Lo scopo di un'azione è l'essenza stessa di tale azione. Già Aristotele lo
affermava.
Quindi se un'azione cambia il proprio scopo, l'azione stessa cambia e solo in
apparenza può sembrare la stessa. Il mangiare quando si mangia per vivere è
diverso dal mangiare quando si vive per mangiare. Lo stesso si dica del vivere.
Il capitalismo è un agire complesso che però, in ogni sua intrapresa, ha come
scopo il profitto, non l'amore del prossimo. Da tempo la Chiesa, pur
riconoscendo che «il profitto è naturalmente legittimo », lo condanna quando e
in quanto esso voglia essere lo scopo della organizzazione economica. Il
profitto è «legittimo» se si mantiene «nella giusta misura»: non come scopo di
tale organizzazione ma come mezzo con cui questa realizza lo scopo legittimo,
ossia il «bene comune». Un mezzo per realizzare la carità cristiana, l'amore del
prossimo.
Ma prescrivendo al capitalismo di avere come scopo il «bene comune»
cristianamente inteso, la Chiesa gli prescrive di assumere uno scopo diverso da
quello che costituisce l'essenza stessa del capitalismo, ossia di diventare
qualcosa di diverso da ciò che esso è. Come ho sempre detto, lo invita ad andare
all'altro mondo. Lo stesso invito del comunismo (diversamente motivato). In
proposito, i critici, soprattutto di parte cattolica, non mi sono mai mancati.
Ma, ora, le surriferite espressioni di Benedetto XVI mi danno ragione.
Infatti, se il capitalismo nella «giusta misura» assume come scopo non più il
profitto ma il «bene comune», allora il capitalismo, dice il pontefice, «è
necessario allo sviluppo economico» ma è anche diventato un diverso «modello di
organizzazione», che, chiosiamo, del capitalismo e del profitto conserva
soltanto il nome — come del «vivere» (e del «mangiare») si conserva soltanto il
nome quando, invece di vivere per mangiare, si mangia per vivere. E questo
diverso modello è qualcosa di «valido», pretende di essere valido oltre alla
validità che il capitalismo attribuisce a se stesso. Giusto dire, quindi, che il
capitalismo non è l'unico modello valido. Qualcosa, però, è da chiarire. Il
capitalismo non va considerato «come l'unico modello valido». Ma — osservo — il
capitalismo che la Chiesa riconosce «valido» e «necessario allo sviluppo
economico» non può essere quello che assume come scopo il profitto (e che poi è
il capitalismo vero e proprio), bensì quello che assume come scopo il «bene
comune» e che appunto per questo è un diverso «modello». A quale altro
capitalismo «valido» si riferisce allora il pontefice, quando afferma che «il
capitalismo non va considerato come l'unico modello valido»? L'impostazione del
suo discorso, cioè, non avrebbe dovuto fargli dir questo, ma fargli concludere
che l'unico «modello valido» è quello «necessario allo sviluppo economico» che è
necessario solo in quanto ha come scopo il «bene comune». È l'economia
cristiana. (Anche l'unica scienza valida è quella cristiana — come il pontefice
ha affermato).
Quella conclusione sarebbe stata, certo, molto cruda. Ma non era molto più cruda
la sua esortazione, fatta ai politici cattolici il giorno prima, a «far sì che
non si diffondano nè si rafforzino le ideologie che possono oscurare e
confondere le coscienze, e veicolare una illusoria visione della verità e del
bene »? Se il pontefice ritiene (e mi risulta che lo ritenga) che il mio
discorso filosofico sia una di quelle «ideologie» e se i cattolici obbedienti
alla Chiesa avessero la maggioranza nel Paese, io dovrei smettere di farmi
sentire. Poco male. Molto importante invece che, se quella maggioranza si
costituisse, anche la libertà di opinione e di parola andrebbe all'altro mondo.
Fine anche della democrazia.
Fine di qualcosa, tuttavia, che la Chiesa non intende far finire. Ma si tratta
di un'intenzione analoga a quella di non voler far finire il capitalismo ma solo
il capitalismo che non si mantiene «nella giusta misura». Anche riguardo alla
democrazia il pontefice potrebbe infatti dire che la libertà «è naturalmente
legittima nella giusta misura» ed «è necessaria allo sviluppo» politico (dove
però la giusta misura è data da una libertà non separata dalla verità
cristianamente intesa). Sì che l'unico modello valido di organizzazione politica
è la democrazia che non assume come scopo la libertà senza la verità cristiana
ma quella il cui scopo è l'unione di libertà e di tale verità (dove il profitto
non avente come scopo il «bene comune» sta alla libertà senza verità, così come
il profitto avente quello scopo sta alla libertà unita alla verità).
Quanto ho detto non ha in alcun modo l'intento di sostenere che, poiché
capitalismo e democrazia sono intoccabili, dunque la Chiesa ha torto. Ha
l'intento di mostrare la conflittualità tra le forze che oggi guidano il mondo
occidentale e che non sussiste soltanto tra Chiesa e capitalismo o democrazia,
ma anche tra capitalismo e democrazia, tra società ricche e l'Islam (che ormai
si è posto alla testa di quelle povere), e soprattutto tra tutte queste forze da
un lato, e dall'altro quella che è destinata a dominarle tutte: la tecnica. Solo
partendo da questo tema si può evitare che le discussioni di questi giorni
sull'«antipolitica» abbiano a nascondere il senso autentico della «crisi della
politica» — che è crisi di tutte quelle forze e dei loro conflitti.
Emanuele Severino Corriere della Sera 30.9.07