Il papa contro la scienza


Benedetto XVI ha torto sostenendo che la vera ragione è innanzitutto religiosa


Davanti ad un uditorio di intellettuali attoniti e senza la minima reazione critica, Benedetto XVI ha
fatto tre affermazioni che scandalizzano il filosofo (miscredente, è vero) che è in me. Affermare,
innanzitutto, che “una cultura puramente positiva sarebbe una capitolazione della ragione” non ha
alcun senso. Questa cultura che è presa di mira, la cultura scientifica, ha potuto svilupparsi al
contrario solo basandosi su di una ragione che ha fatto astrazione dalle credenze religiose in tutti gli
ambiti che ha saputo a poco a poco conquistare: la natura inanimata, il vivente, l'uomo.
E ogni volta ha incontrato l'opposizione della religione: Galileo è stato condannato per aver
contraddetto il geocentrismo della Bibbia, Darwin per aver affermato l'evoluzione delle specie
contro il creazionismo – e solo recentemente la chiesa l'ha parzialmente ammessa (ne esclude lo
spirito umano); infine, non si può dire che la scoperta freudiana dell'inconscio e dell'importanza
della sessualità nella costruzione della personalità umana sia integrata all'antropologia cristiana
ufficiale! Da questo punto di vista, lo stretto positivismo, con le sue conseguenze filosofiche
materialiste, è, al contrario, la condizione assoluta perché la ragione scientifica si realizzi nel suo
progetto di conoscenza del mondo.
D'altronde, affermare che non c'è “vera cultura” se non fondata sulla ricerca di Dio significa
confondere un auspicio, accompagnato da un giudizio di valore soggettivo e parziale, con
l'intelligenza teorica di ciò che la cultura è da secoli e che continuerà ad essere, e di cui ci si
meraviglia che uno spirito del suo livello lo nasconda o lo ignori. La cultura c'è per far riflettere
l'uomo sulla sua condizione, al di là delle differenze che separano gli uomini, e aprirlo all'universale
degli invarianti che costituiscono questa condizione: la vita, la morte, il tempo, la libertà, ecc. E la
pluralità delle risposte che essa ha dato fino ad oggi a questi interrogativi filosofici rende il suo
valore inestimabile.


Totalitarismo ideologico

Il punto di vista religioso (che comunque non è solo cattolico), con i suoi valori propri, ne fa parte e
ha contribuito storicamente alla sua ricchezza, anche se deve essere sottoposto alla critica razionale,
come ogni opzione intellettuale. Ma ridurre la cultura a questo punto di vista, come fa Benedetto
XVI o subordinare la riflessione umana a ciò che resta un credenza in mezzo ad altre di cui niente,
per di più, ci garantisce la perennità, significherebbe imporle una norma a priori e a limitarne la
libertà nonché l'ambizione: il totalitarismo ideologico non è lontano, quel totalitarismo che la storia
della Chiesa ufficiale, dall'Inquisizione alle intrusioni nel campo delle arti, ha purtroppo
evidenziato.

Infine, c'è l'idea iniziale, ma in realtà essenziale, che definisce la matrice dell'impegno religioso,
che il papa tenta di portare al suo massimo livello: l'affermazione chiaramente morale o esistenziale
secondo la quale la vera vita si trova nella ricerca e nella conoscenza di Dio, nella fede stessa, che
“questo solo è importante e sicuro”. Per chi ha letto e capito Nietzsche, ma anche Marx o
Feuerbach, questo significa una cosa sola: la religione si basa sulla negazione o la svalorizzazione
della vita terrestre, dei suoi desideri e dei suoi piaceri, quindi delle sole forme di felicità di cui uno
spirito lucido possa essere sicuro e di cui deve di conseguenza affermare l'importanza; essa
costituisce una forza di morte che ci chiede di anticipare la morte nella vita sacrificando questa ad
un al di là improbabile.
Allora, i riferimenti del portavoce ufficiale della Chiesa cattolica all'uomo o all'umano suonano
stranamente vuoti: cosa può essere un umanesimo che non comincia con il preoccuparsi della
condizione concreta degli uomini quaggiù? Il papa, a questo livello, si situa nell'ottica della sua
enciclica sulla Speranza, in cui polemizza con l'umanesimo ateo, apparso nel XIX secolo e
contemporaneo all'avvento delle scienze umane, che intende ricentrare l'uomo su se stesso ed
aiutarlo così ad umanizzare la sua condizione. Questa professione di fede diffidente nei confronti
delle forze dell'uomo e del valore della sua esistenza terrestre è per me desolante... perché è un
fattore di desolazione reale: essa impedisce all'uomo di rendere bella la sua vita agendo
concretamente in essa e su di essa.

Certo, non si tratta di disprezzare coloro che non sono soddisfatti della condizione umana e si
dedicano a trovarvi una scappatoia. Ma incitarli a fare ciò con tutto il peso di un magistero
istituzionale, significa distoglierli dallo sforzo millenario che la ragione filosofica, scientifico-
tecnica e politica ha dispiegato per contribuire alla felicità umana hic et nunc. Significa, dietro la
maschera della speranza di una felicità superiore, correre il rischio di alimentare l'infelicità effettiva
dell'umanità. Nessun intellettuale progressista potrebbe accettarlo.

Yvon Quiniou, filosofo      in “Le Monde”  20 settembre 2008