Papa Benedetto XVI riparte da Auschwitz
Oggi la visita al campo di sterminio. Ma l'obiettivo di Ratzinger è quello di fondare un «nuovo umanesimo» cristiano. Che dovrà essere il segno del suo pontificato

Non è soltanto un omaggio alle vittime della Shoa, un'occasione di preghiera interreligiosa, un momento di riflessione storico-filosofica. La visita odierna di papa Ratzinger al campo di sterminio di Auschwitz è molto di più. E' il primo gesto potentemente simbolico del pontificato di Benedetto XVI, denso di quello stesso deflagrante potere di parlare all'intera umanità tipico dell'approccio di Wojtyla. Ed è un gesto tanto più significativo perché Benedetto XVI ha scelto un altro stile di papato: più discreto, più finemente intellettualistico e meno appetibile per l'arena mediatica. Questa volta però Ratzinger - che nella sua biografia ha l'esperienza giovanile della hitlerjugend - avrà puntati addosso gli occhi del mondo. Ed è dunque intenzionato a cogliere pienamente l'occasione: un palcoscenico unico al mondo, un'opportunità storica in cui le sue parole resteranno negli annali. E' vero, anche Wojtyla visitò Auschwitz: allora la sua riflessione si soffermò sul misterium iniquitatis, cioè sul mistero del male di fronte a cui l'uomo resta attonito, tocca il fondo della malvagità, non può che accorgersi dei suoi limiti di creatura e proiettarsi verso il Creatore.
Ma papa Ratzinger oggi va ben oltre la riflessione teologica del suo predecessore. E lo fa nel consueto approccio che unisce profondità teologica, limpida visione della storia, capacità di incidere sul presente. Auschwitz, allora, serve al pontefice per fondare il «nuovo umanesimo» che costituisce l'asse portante del suo pontificato, la pietra angolare della sua azione pastorale, l'agognato punto di incontro fra fede e ragione, la chiave di volta per conciliare cristianesimo e modernità.
Il «nuovo umanesimo» è un umanesimo antico: è una concezione dell'uomo in cui - come ha detto nell'omelia della messa pro eligendo pontefice - Cristo è «la misura del vero umanesimo», in opposizione ai «venti di dottrina» che hanno agitato gli ultimi decenni. Un umanesimo profondamente cristiano, che prende coscienza - sui passi del teologo Henri De Lubac - dei disastri dell'umanesimo ateo, che ha prodotto nazismo e comunismo. Secondo il papa, oggi riprende vita quello che il filosofo canadese Charls Taylor definisce un «umanesimo esclusivo», che espunge punti di riferimento trascendenti dalla vita culturale, sociale e politica: ma «l'umanesimo esclusivo è disumano», come afferma la Populorum Progressio di Paolo VI. Quello ratzingeriano è l'umanesimo in cui «fede e ragione cooperano in fecondo dialogo alla promozione dell'uomo e alla edificazione dell'autentica pace», come ha detto l'estate scorsa. E' quell'umanesimo che, di fronte all'individualismo e al relativismo, i credenti in Cristo sono chiamati a presentare «con entusiasmo e con passione, ciascuno nel proprio campo di studio e di ricerca», come ha chiesto agli accademici pontifici, o ha sottolineato nell'enciclica Deus caritas est.
Questo «nuovo umanesimo» è la stella polare del pontificato di Ratzinger, perché orienta ogni pensiero, discorso, azione del papa tedesco. Da qui discende una visione netta, schematica, tagliente della storia, della società, della politica. Il nuovo umanesimo è il terreno su cui il papa intravede una possibilità di dialogo con il mondo contemporaneo. E' l'alveo in cui difendere e teorizzare l'antropologia dei «diritti naturali» che conducono alla tutela della vita e della famiglia, nella ricerca di un modello condiviso (e permeato dal cristianesimo) di società, di nazione e perfino di Europa. E' la battaglia più grande, cruciale del papato ratzingeriano. Ma solo il tempo dirà se la scommessa è vincente.