Il Paese della paura


La storia la conosciamo un po’ tutti. Che sia avvenuta ad Aprilia, centro dell’agro pontino, no, non è forse un caso. Ma poteva accadere ovunque. Nella vicenda di un tabaccaio che, per difendere il suo negozio dall’ennesimo furto, uccide con un colpo di fucile un rumeno di 21 anni c’è gran parte del sapore - amaro, amarissimo - dell’Italia di questi anni. Quel fatto di cronaca rappresenta (mette in scena) alcuni tra i cambiamenti culturali ed emotivi (oltre che sociali) più profondi del Paese: c’è, innanzitutto, la Paura; e poi c’è la percezione collettiva di cosa siano Torto e Ragione (che, va da sé, richiedono identità e marchiatura dei protagonisti di una qualsivoglia contesa; e che vengano riconosciuti per schemi e stigmatizzazioni e attraverso “prove” sempre più fosche, come in una cupa “morfologia della fiaba”); infine, vi è, che non sembri eccessivo, la percezione comune del Valore (sempre più materiale ed “economico”) della Vita.
Dunque, discutere dell’accaduto ci interessa relativamente. La sua dinamica appare, seppur tragica, talmente ovvia e consumata da somigliare a un canovaccio scritto dal più ingenuo degli sceneggiatori neorealisti. Il commerciante derubato è un tabaccaio, appartiene cioè a una categoria particolarmente vessata dalla malavita, e aveva già subito numerose rapine; il ragazzo ucciso è, guarda caso, un rumeno, ovvero la “sintesi etnica” perfetta di tutti gli attributi spaventevoli che siamo soliti proiettare sugli immigrati; e il tutto accade in un centro, quello di Aprilia, appunto, dove i rumeni sono il 7% della popolazione, dove a disegnare il paesaggio urbano di ciò che era un paese e oggi è una piccola città è uno sfrenato abusivismo edilizio, tra le macerie di quanto rimane di un’imprenditoria foraggiata dalla Cassa del Mezzogiorno e di un’agricoltura in crisi, con la criminalità organizzata oramai stabilmente insediatasi nel territorio.
Allora le considerazioni che seguono non possono, per quanto ci riguarda, che essere una summa di “ovvietà”, un condensato di quanto già in passato, in vicende analoghe a questa (e ce ne sono state!), molte persone di buon senso hanno pensato, detto, scritto. Ma, visto che oggi a ribadire quei concetti, sono rimasti in pochi, tanto vale riassumerli.
Si discute del capo di imputazione che deve essere contestato al tabaccaio. E tutti, un coro che percorre il centrodestra e arriva sino al Pd, chiedono che sia riconosciuta la legittimità di quell’azione di difesa; che quel colpo di fucile sparato da un balcone, che ha ucciso Daniel Margineau, non venga interpretato come un “omicidio volontario”. C’è un dato tecnico-giudiziario, è ovvio, che va precisato: si tratta di comprendere veramente l’accaduto, nei suoi dettagli e con grande cura, affinché la sentenza che concluderà questa storia non si dimostri ingiusta. Ma c’è anche da decidere, al di fuori dei tribunali, se atti di questo genere siano legittimi: se sia, cioè, coerente con le nostre leggi e con l’impianto di un ordinamento liberale rispondere a un tentativo di furto, di sottrazione di beni, provocando in modo violento la morte del ladro. Da un lato, in questo caso, vi sono la paura che assedia la vita di un commerciante e della sua famiglia; i danni economici che è costretto a subire; il clima di una cittadina reso invivibile da una criminalità aggressiva e, pare, dilagante. Dall’altro c’è il corpo di un giovane disarmato, steso davanti a una saracinesca divelta, ucciso, a 21 anni, per 100 stecche di sigarette. La sua vita “valeva” così poco?
Quell’uomo, che per difendere il proprio lavoro (e forse pensando anche alla sua incolumità e a quella della sua famiglia) ha compiuto un gesto terribile, merita tutta la comprensione: possiamo tentare di immaginare quanto gli sia costato premere il grilletto; e quanto possa pesare sulla sua coscienza, oggi e negli anni a venire, a prescindere da torti o ragioni, quella vita interrotta per qualche migliaio di euro. Ma continuiamo a credere che non si possa morire per tanto poco, e neppure per molto di più; che tutta la frustrazione, la paura, l’esasperazione e la disperazione del mondo non giustifichino un gesto tanto grave; che lo stato deve assolvere a un ruolo di interposizione tra gli uomini, per evitare che la tutela dei beni e la difesa delle prerogative individuali non passino attraverso violenza privata, faide, gesti unilaterali.
A difendere Davide Mariani, il tabaccaio di Aprilia, ci sono i commercianti della cittadina e, stando alle cronache, un po’ tutta la sua comunità; e l’associazione nazionale degli esercenti del tabacco e il mondo del commercio; e la politica e, si direbbe, gran parte dell’opinione pubblica. Quell’uomo, stando a queste voci, ha sì ucciso, ma a seguito di una dinamica dove è possibile rinvenire la legittimità del suo gesto, che si vuole difensivo. Saranno i giudici a decidere se in effetti così è stato; dalle cronache a disposizione ci sembra che il dato saliente possa essere letto, piuttosto, in un elemento di “sproporzione della reazione”, per stare al gergo da guerra fredda di queste settimane; e la stessa normativa sulla legittima difesa, pur modificata nel 2006, sembra escludere la legittimità del ricorso a un’arma da fuoco in circostanze come questa. Ma il punto è un altro: spaventano un po’ questa mentalità diffusa, e quel modo di sentire e giudicare fatti e persone. Ricordiamo, qualche tempo fa, il dramma di una ragazza uccisa da una sua coetanea rumena, nelle gallerie della metro di Roma, per un banale diverbio. Con un ombrello. Un ombrello sciaguratamente armeggiato contro il volto della vittima.
Benché sia contro ogni buon senso pensare che qualcuno possa davvero voler uccidere qualcun altro con un ombrello, tutta l’Italia della Paura chiese che quella giovane rumena fosse imputata di omicidio volontario. Fatte salve le mille differenze tra i due episodi - quelli della metro di Roma e quelli di Aprilia - rimane la scena desolante di un paese in cui si crede che una ragazzina rumena armata di ombrello sia un’assassina intenzionale e volontaria; e che un cittadino italiano, armato di fucile e opposto a un giovane immigrato disarmato, sia per definizione (perché vittima di un furto) innocente. Quel giovane immigrato non era uno stinco di santo: era un ladro. E da ladro è morto. Si può tentare - disperatamente tentare - d non criminalizzare il suo assassino e, insieme, di non rallegrarsi di quella morte.

 

Luigi Manconi e Andrea Boraschi     l’Unità 26.8.08