Il paese dei muri
L'ultimo sorgerà al posto della rete di metallo che tiene lontano i bambini delle case popolari del
civico 44 da quelli del palazzo di fronte del civico 38 di Corso Rosai a Torino. Un muro per
dividere il cortile, lo spazio per giocare, parlare, incontrarsi. Troppo pericolosa questa mescolanza
di classi sociali, forse anche un po’ indecente, devono aver pensato i proprietari delle case di
cooperative realizzate nel 2006 con la riqualificazione della zona del parco fluviale della Dora in
occasione delle Olimpiadi. Meglio che i nostri bambini non si confondano con quelli degli “altri”.
Per questo è stata tirata su una rete, avanzata dai lavori del cantiere. Ma ora i condomini del 38
chiedono che sia alzato un muro. Per dividere meglio, fermare anche lo sguardo dei bambini, il
passaggio furtivo di piccole mani tra maglie della rete, magari lo scambio di giocattoli o di parole. Il
modello della Cisgiordania è stato preferito a quello di “mix sociale” fortemente voluto
dall’assessorato alle case di Torino, contrario a relegare le case popolari in quartieri separati.
Una nuova barriera dunque si affiancherà a quella di via Anelli a Padova, a quelle dei centri per gli
stranieri e alle tante altre sorte in questi anni. Caricature degli altri muri del mondo che hanno
resistito alla caduta del muro di Berlino o che sono nati sulle sue ceneri. Espressione di una cultura
sociale e politica che sceglie di respingere indietro i migranti che arrivano stremati sui barconi
seduti vicino ai loro compagni morti durante il viaggio. Sensori di un clima dove si chiedono
autobus e metropolitane per gli stranieri, dove un ministro della Repubblica invita a non affittare le
case agli immigrati al grido di “le case si danno innanzitutto ai lombardi e non al primo Bingo
Bongo che arriva”.
Muri invisibili
A vent’anni dal crollo del muro di Berlino, le cui celebrazioni vanno avanti da mesi, i muri sono
tornati prepotentemente di moda. Nuove barriere e nuove frontiere marcano sempre più l’Italia. A
volte sono visibili e dure come il cemento armato o le reti, altre volte sono nascoste o talmente
evidenti da mimetizzarsi nell’ambiente. Come il muro del pregiudizio. Invisibile ma potente,
rinchiude le persone dentro una definizione e un destino anche quando non gli appartengono. La
loro vita scompare. La loro identità si riduce a una dimensione: un sieropositivo, un arabo, un ladro,
un rumeno. Non c’è spazio per altro. Per questo l’indulto e gli indultati non riescono a togliersi quel
vestito che è stato cucito loro addosso e che adesso li imprigiona come un burqa in una verità che
non appartiene loro. Al di là dei fatti e delle evidenze continuiamo a dire e a pensare che l’indulto è
stato un fallimento, che in fondo quei titoli di giornali che dicevano “tana libera tutti” erano veri.
Non importa che l’ultimo studio sui dati del Ministero della Giustizia presentato pochi giorni fa da
Luigi Manconi e Giovanni Torrente, ci dicano il contrario. Non importa che tra i detenuti che hanno
usufruito dell’indulto la recidiva sia più che dimezzata. La frontiera del pregiudizio ci inchioda a
quella bugia che si è fatta verità: gli indultati sono tutti tornati a delinquere e noi siamo meno sicuri.
Parole come muri
I pregiudizi si nutrono anche di parole dalle quali non ci si riesce più a liberare, come la “banda
degli indultati” di cui scrivevano i quotidiani pochi giorni dopo l’atto di clemenza, quasi che si
trattasse di una variante della banda della Magliana o come accade qualche volta ai nomi. Oggi
basta un nome arabo per essere sospettato di terrorismo o per fare scattare l’allarme a bordo degli
aerei. Sarà forse per questo che, in Francia, dove la questione del velo islamico a scuola e le rivolte
delle banlieue hanno messo a nudo il problema dell’integrazione, ogni settimana almeno
quarantacinque francesi di origine immigrata cambiano il loro nome: da Zubida a Nadine, da Kamel
a Pierre, da Leila a Marie. Sono soprattutto i giovani a voler francesizzare anche il loro nome. Figli
o nipoti di immigrati che sperano così di superare la frontiera della parola, integrarsi più facilmente
e diventare finalmente anche loro figli legittimi della Francia. Dopo gli ebrei che alla fine della
Seconda guerra mondiale scelsero di modificare il loro cognome troppo “giudio” salvo poi negli
anni ‘60 fare retromarcia e recuperare la loro identità, oggi sono i figli degli arabi a voler
abbandonare quei nomi che li rendono diversamente uguali.
Frontiere di carta
Dividere il mondo in noi e loro è una pratica antica che ha ripreso vigore: i nostri bambini e quelli
delle case popolari, noi onesti e loro gli indultati che tornano a delinquere, noi italiani e loro gli
immigrati, gli extracomunitari, i clandestini. Il muro che ci divide dagli stranieri è molto più sottile,
apparentemente innocuo. A vederlo non sembra così feroce come la barriera di acciaio, telecamere a
raggi infrarossi e sensori al confine tra Messico e Stati Uniti che divide l’America ricca
dall’America povera, segnata in alcuni tratti da bare colorate che riportano per ogni anno il numero
delle persone che sono morte nel tentativo di superarla: 390 nel 2003, 371 nel 2002, 367 nel 2001,
499 nel 2000. Da noi non ci sono muri ai confini. E neanche bare colorate. A contare i morti sono
spesso i pescatori nelle cui reti si impigliano i corpi di chi non ce l’ha fatta a entrare nella fortezza
Europa.
Il nostro muro è fatto di carta. Un semplice foglio di carta con poche parole scritte che ti cambiano
la vita: permesso di soggiorno. Chi ne è privo non ha diritti. Neanche a esistere. È solo un fantasma,
magari uno dei tanti che raccoglie i pomodori nel sud d’Italia o che lavora e qualche volta muore
nei cantieri edili. Neanche a crescere nella propria famiglia, come ha rischiato il piccolo Abou tolto
a Kante, sua madre nigeriana che era andata a partorire in ospedale di Napoli senza avere il
permesso di soggiorno. Neanche ad avere una casa. D’altra parte ai fantasmi non serve: basta un
ponte, un vagone in disuso, una panchina sfuggita ai rigori dei sindaci-sceriffi. È questo muro che
ha respinto in Libia gli uomini e le donne che erano riusciti ad arrivare nel nostro mare a bordo di
gommoni e barconi. Stop ai clandestini ha tuonato il Governo che ha voluto usare il pugno duro con
i poveri del mondo e che adesso deve rispondere alle accuse dell’Onu di aver maltrattato i migranti
e di aver privato i rifugiati dei loro diritti.
Ma non basta. Con l’entrata in vigore del pacchetto sicurezza approvato recentemente dal
Parlamento che rende l’ingresso e il soggiorno irregolare nel nostro paese un reato, quel muro di
carta trasformerà migliaia di stranieri in fuorilegge per il solo fatto di stare qui in Italia. A meno che
questi stranieri che lavorano non servano, come succede per le colf e le badanti per le quali è già
stata pensata una sanatoria. Una piccola breccia nel muro di carta per risolvere i problemi di noi
ricchi. Poi il muro si richiuderà e stranieri, immigrati, extracomunitari, clandestini, rifugiati,
irregolari, richiedenti asilo e anche i figli italiani degli immigrati torneranno a farci paura. E forse
altri muri di cemento, di parole o di carta si alzeranno per difendere quella che chiamiamo la nostra
Daniela De Robert
Arrestatemi, ho dato ospitalità a una bimba clandestina. Lo rifarei
Ci scrive Luigia Paoli: «Arrestatemi. Ho commesso reato per avere dato ospitalità a una clandestina.
E con me arrestate i miei complici: 1. l'impiegata dell'anagrafe del comune, che inserì la clandestina
nel nostro stato di famiglia. 2. Il medico che la visitò immediatamente dopo l’arrivo. 3. Il direttore e
la maestra che l’accolsero a scuola. 4. L'equipe del pronto soccorso dove venne portata per ricucire
un profondo taglio a un braccio. 5. La mia gentile vicina di casa per avermi tenuto il bimbo piccolo
mentre correvamo all' ospedale. 6. Il Presidente del Tribunale per i minori di Firenze che ebbe
l’intelligenza e la saggezza per risolvere tutto.
Ciò accadeva quasi quarant’anni fa. Secondo il Ministro dell’Interno, il reato di “clandestinità”non
sarebbe retroattivo, ma è certo che io rifarei tutto daccapo. Punto per punto. Nei primi anni ’70 mio
marito ed io aspettavamo in adozione una bimba brasiliana. Per le vie misteriose del Signore, la
buona volontà di un giudice di Bahia e di un missionario italiano, amico di famiglia, ottenne il
risultato sperato. A quel tempo la bambina aveva sei anni. Ora ne ha 40. Se vi scrivo è per dire che,
quanto decenni fa, veniva fatto con serena disponibilità costituisce oggi fattispecie penale; e perché
ciò dà la misura di come sia cambiata l’Italia. Un esempio: prima, al solo sentire la parola mamma
pronunciata da quella bambina nera, la gente sorrideva compiaciuta. Se io non ero una santa, ci
mancava poco. Ora, se è lei a fare la spesa, o se quando siamo in montagna mi aiuta a saltare un
fosso, state tranquilli che quella ragazza nera è la mia cameriera e se lei generosamente si carica dei
bagagli più pesanti, io sono una schiavista. Non posso essere la mamma».
Luigia Paoli