PACS: LO STATO NON ABBIA PAURA

 

 Il Presidente della Repubblica ha espresso una preoccupazione dettata da senso di responsabilità politica. A proposito della normativa sui Pacs si è augurato una «sintesi» delle diverse posizioni.

Gli ha risposto la Confederazione episcopale italiana, contrapponendo artificiosamente se non maliziosamente l’idea di «sintesi» di Napolitano a qualunque ipotesi di «compromesso» o «mediazione». E ha fatto una puntigliosa critica anticipata di ogni forma di legge sulle coppie di fatto, dichiarandola semplicemente «superflua».

Siamo così nella piena anomalia italiana. L’anomalia non consiste nelle pressioni che la gerarchia ecclesiastica esercita sull’opinione pubblica, sul governo e sulle istituzioni politiche. Questo fa parte del suo ruolo pubblico, che le è ampiamente riconosciuto. L’anomalia sta nella disinvoltura con cui in questa circostanza la Chiesa assurge a partner necessario per la definizione di una legge dello Stato. Le stesse parole del laico Napolitano suonano - involontariamente - come la conferma che la questione tocca i rapporti istituzionali tra Chiesa e Stato. Siamo davvero a questo punto? La Chiesa cioè (nei suoi massimi esponenti) ha individuato oggi nei Pacs una questione che può addirittura incidere sui buoni rapporti tra Chiesa e Stato? O quanto meno introduce un fattore dirompente nella gestione politica? Se fosse così, saremmo di fronte a qualcosa di più serio di una anomalia.

Ma temo che sia difficile sostenere questa tesi senza esporsi ad una delle accuse peggiori di questi tempi: l’accusa cioè di essere inguaribili laicisti. Di voler mettere il bavaglio alle manifestazioni pubbliche della Chiesa, di negare i diritti di «identità» dei cattolici (oltre che essere - nel merito - «sfasciafamiglie»).

Naturalmente non è così. Nel caso dei Pacs ciò che è in gioco è semplicemente ma essenzialmente l’autonomia della deliberazione politica, affidata ai cittadini, o meglio ai loro rappresentanti, siano essi cattolici o laici. Il punto, caso mai, è perché i cattolici italiani, militanti, o impegnati politicamente e pubblicisticamente, non hanno la capacità di sostenere con efficacia le loro convinzioni presso i loro concittadini (innanzitutto quelli che si dichiarano cattolici). Ma devono ricorrere alla potente supplenza delle istituzioni ecclesiastiche. Ciò che nella giornata di ieri è stato politicamente decisivo, infatti, non è stato la mobilitazione di questa o quella associazione di cittadini cattolici o le dichiarazioni di questo o quel politico, ma il pronunciamento della Conferenza episcopale italiana. Compreso il segnale, ben mimetizzato nei discorsi di principio, di possibili iniziative politiche (un referendum contro un’eventuale legge). In questo caso parlare di anomalia è solo un eufemismo.

Non ripeteremo qui le ragioni di principio (più volte esposte da più voci anche su questo giornale) a favore di una chiara e ragionevole normativa, giuridicamente ben fondata, del riconoscimento delle unioni di fatto, anche omosessuali. C’è solo da augurarsi che il governo non si lasci intimorire e non faccia pasticci. Ma su questo avremo modo di tornare nelle prossime settimane.

Rimaniamo alla strategia argomentativa della Chiesa. Il discorso di mons. Giuseppe Betori, segretario della Cei, ha sviluppato con insistenza un argomento ben noto. Il giudizio della Chiesa, che la porta a respingere ogni possibile legge sulle coppie di fatto, in quanto fattore di disgregazione familiare, si basa - dice il prelato - su considerazioni puramente «antropologiche», umano-naturali, cioè non strettamente religiose. Nel contempo però questa concezione (presuntivamente) soltanto umano-naturale è dichiarata qualificante per i cristiani, al punto che in essa mettono in gioco la loro stessa identità. In altre parole, soltanto i cristiani avrebbero del matrimonio una concezione antropologicamente e moralmente sostenibile.

È chiaro che si tratta di una affermazione assai problematica dal punto di vista storico, scientifico ed etico. Ma qui ci interessa un altro aspetto, che dovrebbe preoccupare (o forse davvero preoccupa) gli uomini di Chiesa. Moltissimi (buoni) cattolici non hanno affatto della vita e della esperienza delle unioni familiari e matrimoniali quella visione, ad un tempo trasfigurata e catastrofica, che hanno molti pastori della Cei. E quindi considerano la normativa dei Pacs (che funziona da anni in tutti i Paesi civili) come una soluzione ragionevole («naturale») di molte situazioni, e non un passo su un piano inclinato verso la dissoluzione di ogni rapporto di responsabilità interpersonale. Una buona (o fortunata) esperienza familiare non dipende affatto dalla sua forma giuridica. E una pluralità di forme di unione può favorire maggiore autenticità dei rapporti.

Ma non insisteremo oltre su queste riflessioni. Ci chiediamo se dietro l’ansiosa campagna anti-Pacs della Chiesa non ci sia una strategia rischiosa e sbagliata. Pensa di ricuperare la lealtà dei fedeli cattolici tramite affermazioni di principio e irrealistiche prospettive, che sono in contrasto con il vissuto e con l’esperienza di migliaia e migliaia di uomini e di donne che dalla loro Chiesa forse si sarebbero aspettati un atteggiamento diverso. E se qualche uomo di Chiesa si farà (ri)tentare dal referendum, questa volta andrà incontro ad una cocente delusione.

 

GIAN ENRICO RUSCONI      La Stampa 1 febbraio 2007